di Pietro Ichino*
Nonostante i comportamenti e i proclami reciprocamente aggressivi, ciascun Paese, Russia per prima, ha bisogno dello scambio commerciale con gli altri come dell’aria che respira – E lo scambio presuppone un ordinamento giuridico funzionante, che c’è e continua a funzionare nonostante lo scontro distruttivo in atto fra le parti contendenti
Tra i paradossi della strana guerra in Ucraina va considerato anche questo: la Russia invade il Paese vicino dichiarando l’intendimento di cancellarlo come Stato sovrano, ma nelle more dell’“operazione militare speciale” mantiene attivo un rapporto contrattuale in base al quale l’Ucraina consente di far passare sul proprio territorio il gas che la Russia vende ai Paesi dell’Europa occidentale. Qualcuno avrebbe potuto pensare che, a seguito dell’aggressione militare, il Paese invaso chiudesse il gasdotto per ritorsione nei confronti dell’aggressore; il flusso del gas è stato invece scrupolosamente mantenuto fino a pochi giorni fa, finché le operazioni militari lo hanno consentito, perché anche il Paese invaso aveva interesse alle relative royalties, che peraltro l’aggressore continuava scrupolosamente a corrispondergli, fra un bombardamento di ospedali e una strage di civili, alle scadenze pattuite.
Mutatis mutandis, è lo stesso paradosso di cui sono protagoniste l’Italia, la Germania e gli altri Paesi europei la cui economia dipende dal gas russo. Il loro sdegno vibrante nei confronti dell’invasore e dei crimini raccapriccianti di cui è disseminata la sua “operazione militare speciale” si esprime in una serie imponente di sanzioni economiche mirate a fargliela pagare carissima; si dà il caso però che, a causa dell’aumento vertiginoso del prezzo del gas in parte conseguente all’operazione stessa, i corrispettivi pagati alla Russia per questo combustibile invece di ridursi siano aumentati altrettanto vertiginosamente. Certo, al momento la venditrice è impossibilitata a spendere utilmente l’enorme surplus commerciale che sta accumulando con le vendite di gas, stante l’interruzione dei suoi acquisti di altri beni causata dalle sanzioni; ma l’enorme flusso di merce e di denaro tuttora in atto tra le due parti impone comunque qualche riflessione.
Ancora più paradossale è osservare le sottili disquisizioni di diritto commerciale internazionale circa gli effetti delle clausole contrattuali che regolano le forme di pagamento del combustibile: gli stessi Paesi – i cui blindati, cannoni e missili si scontrano tra loro in Ucraina con violenza inaudita – si chiedono quale potrebbe essere la decisione della Corte dell’Aia nell’eventuale controversia sulle modalità del regolamento dei loro reciproci conti di dare/avere contrattuale. Questo significa che, nonostante lo scontro brutale in atto sia sul terreno militare sia su quello economico, il diritto commerciale internazionale è tuttora vivo e vegeto: la sua effettività regge bene e le sanzioni che esso commina costituiscono un deterrente efficace contro gli inadempimenti, nonostante che su un altro terreno di gioco le stesse parti se le diano di santa ragione senza alcun ritegno.
Tutto ciò porta con sé una buona notizia. È vero che con l’invasione dell’Ucraina il sistema delle relazioni internazionali ha subito un trauma gravissimo; ma è anche vero che nonostante lo shock e nonostante i comportamenti e i proclami reciprocamente aggressivi ciascun Paese – Russia per prima – ha bisogno dello scambio commerciale con gli altri come dell’aria che respira. E lo scambio presuppone un ordinamento giuridico funzionante, che c’è e continua a funzionare.
Il Governo russo mette in conto per quest’anno un calo del prodotto interno, conseguente alle sanzioni, tra il 10 e il 20 per cento rispetto al 2021. Già questo è impressionante: che un Paese con quasi 150 milioni di abitanti possa sacrificare una parte così rilevante del proprio reddito per soddisfare una brama di espansione a spese di Paesi vicini, oltretutto così male assecondata dai suoi mezzi bellici. Ma negli ambienti riservati degli economisti russi stanno incominciando a circolare previsioni molto più gravi: se resterà ancora a lungo isolata dal commercio internazionale, l’industria russa subirà un salto all’indietro di tre decenni, perché le mancheranno componenti, che essa non è in grado di produrre, indispensabili per la costruzione di macchine utensili, autoveicoli, treni e aerei; persino l’edilizia civile subirà un brusco regresso tecnologico, in conseguenza dell’impossibilità di acquisto dai Paesi occidentali di semilavorati ormai ritenuti indispensabili. Né la Cina, sorniona, sembra disposta a isolarsi anch’essa dagli scambi commerciali mondiali per venire in soccorso all’alleata che si è messa nei guai.
È dunque ragionevole ritenere che, prima o poi, sulle pulsioni imperialiste e sulla diffidenza radicata nella cultura russa contro il “progresso demoniaco” dell’Occidente finisca col prevalere l’esigenza vitale di tornare al grande gioco a somma positiva dello scambio commerciale internazionale. Sarà interessante osservare quali forme assumerà questa rivincita della globalizzazione e quali saranno le sue conseguenze sull’assetto di vertice del regime russo.
*Fondo pubblicato sulla Gazzetta di Parma il 29 maggio 2022
In argomento v. anche La Santa Madre Russia e l’Ovest demoniaco
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino