di Stefano Ceccanti
Il deposito del testo-base contro l’omofobia ripropone un dilemma classico che ha animato la Repubblica sin dalla sua nascita, in particolare con l’approvazione della XII disposizione finale sul divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista.
Fino a che punto dobbiamo difendere la democrazia, la dignità delle persone e dei gruppi? La libertà di opinione ha dei limiti? Se una democrazia si difende troppo, ponendo dei limiti forti a opinioni irritanti, finisce per diventare simile agli ordinamenti non democratici che limitano il pluralismo; ma se essa, al contrario, non si protegge per niente, se è ingenua, rischia di essere snaturata dall’interno. In fondo, anche nel caso italiano, un Regime non democratico si era affermato per via legale.
Per capire il senso del testo sull’omofobia dobbiamo quindi collocarlo nel contesto dell’ordinamento.
Se si rileggono gli atti della Costituente e in particolare quelli sulla XII Disposizione sul divieto di ricostituzione del disciolto PNF, eccezione alla regola generale di libertà, si vede come l’approccio sui limiti fu particolarmente prudente. Togliatti, che notoriamente aveva un rapporto pessimo col movimento anarchico, affermava il 19 novembre 1946, per fare un esempio, che esso “dovrebbe essere combattuto sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee, ma non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi” e che il limite dovesse riferirsi solo “ad un fatto preciso storicamente determinato. Il partito fascista ha dimostrato di voler distruggere le libertà umane e civili del cittadino ed ha portato il Paese alla rovina: per questo gli si deve negare il diritto all’esistenza” ed accettava poi, sulla base di un intervento di Dossetti, la precisazione che il divieto non dovesse riguardare un generico partito fascista, ma “del” partito fascista come realtà storica e concreta, a proposito del quale si parla infatti di ricostituzione. Per di più, dieci giorni dopo, nella discussione sul futuro articolo 139 sulla non revisionabilità della forma repubblicana, lo stesso Togliatti precisava che essa non avrebbe potuto comportare l’illiceità della propaganda monarchica, ma, al limite, solo riferirsi “a particolari casi in cui gli elementi monarchici si mettessero sul terreno dell’organizzazione armata e del colpo di Stato”.
La democrazia italiana nasce quindi come aperta e non protetta; l’apertura non è però totale, ingenua, è limitata a rischi chiari e concreti legati a comportamenti. A differenza della Germania dove in quella fase, per Costituzione, erano proibiti partiti antisistema anche solo per le loro idee, l’Italia afferma chiaramente una linea divisoria tra idee consentite e comportamenti non ammessi. Le parole, cioè, di per sé non sono pietre. Nella inevitabile zona di sovrapposizione tra idee e comportamenti, le prime possono avere dei limiti solo se contribuiscono a creare un pericolo reale e concreto di comportamenti.
Così si è sviluppata poi la legislazione ordinaria, dalla legge Scelba fino a quella Mancino, supportata da una rigorosa e univoca giurisprudenza costituzionale.
Chiarito questo quadro ordinamentale, ovviamente bisogna prima chiedersi se una legge sia necessaria. Ora è innegabile, al di là delle discussioni sulle singole statistiche, che l’omofotransfobia esista, in atti concreti e diffusi, e che nel nostro contesto odierno vi sia per fortuna una sensibilità maggiore alla dignità della persona anche su queste dimensioni.
Oggi c’è, per di più, un problema particolare proprio di contesto, quello dei social network, dove è più facile che le parole diventino pietre anche perché si possono scatenare comportamenti imitativi e dove quindi è necessario essere più rigorosi. Già c’è una vigilanza interna di Youtube, Facebook e Twitter, ma serve anche la vigilanza esterna posta dalla legge.
Questa è la realtà specifica odierna che motiva la necessità della legge: non è possibile essere ingenui rispetto alla potenza di odio veicolata nei social. L’ordinamento non può non assumere quindi il vincolo di difendere le minoranze che si rivelano nella realtà concreta discriminate e oggetto di odio. Ovviamente, in coerenza con le sue caratteristiche prima spiegate, deve farlo senza eccessi di legittima difesa, ossia senza comprimere in modo irragionevole le minoranze ritenute sgradevoli dal senso comune. Le parole perseguibili possono essere solo quelle che creano un pericolo chiaro e presente di trasformarsi in pietre.
A me sembra che la proposta di testo base consenta di iniziare i lavori sui binari giusti perché il testo, e la puntuale spiegazione nella relazione introduttiva, si collocano dentro la logica consolidata nell’ordinamento.
Evidentemente un testo base ha solo la finalità di far partire il lavoro referente e può tranquillamente essere modificato. In particolare mi sembra che ci sia un problema non tanto di contenuti, ma di ordine degli stessi, che però deriva dal fatto che sia stato assegnato alla sola Commissione Giustizia per cui la parte repressiva è stata anteposta a quella preventiva, quando noi sappiamo che su questo terreno la prevenzione ha un impatto potenzialmente molto più forte della deterrenza delle sanzioni, oltre ad essere un terreno di più facile consenso tra tutti coloro che non sono prevenuti.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.