di Enrico Morando
La legge di Bilancio (sì, si chiama così anche in Italia: la “Legge finanziaria“ e la “Legge di stabilità“ non ci sono più da anni), ha un respiro almeno triennale e dovrebbe fornire al Paese e ai partner dell’Unione Europea un’indicazione chiara sui fondamentali obiettivi che il Governo e la sua maggioranza parlamentare intendono perseguire nel medio tempo. Obiettivi che -entro la fine del mese di settembre-, avrebbero dovuto essere messi in chiaro attraverso la NADEF (nota di aggiornamento del documento di economia e finanza).
Dire che il Governo ha tenuto coperte le sue carte fino all’ultimo, è poco: grazie al celebrato discorso del Ministro dell’Economia al meeting di Rimini, abbiamo potuto apprendere che… le condizioni della finanza pubblica italiana non erano brillanti e che le mirabolanti intenzioni di spesa in materia di pensioni e flat tax per tutti avrebbero dovuto attendere tempi migliori… Non è mancato chi ha gioito: poteva essere la Legge di Bilancio della catastrofe (il bis di quella tentata dal Conte uno), e invece sarà “responsabile” acqua fresca. Consapevole della notevole distanza tra gli obiettivi della campagna elettorale e la realtà della “sua” prima legge di Bilancio, Meloni ha per tempo predisposto una duplice linea di difesa.
Contro le critiche di chi volesse sostenere che la sua politica di bilancio è priva di respiro, ha prima di tutto trovato un colpevole: l’Europa nemica delle “Nazioni” e, in particolare, il Commissario Paolo Gentiloni, rigorista (non mettetevi a ridere) e nemico dell’Italia. È un classico del populismo: se hai un problema, lascia perdere cause e relative soluzioni. Trova un colpevole e aizzagli contro gli elettori arrabbiati: funzionerà, almeno nel breve periodo (nel lungo -lo ha detto anche quel progressista di Keynes -, saremo tutti morti). Per chi si dichiarasse non convinto, Meloni ha approntato una seconda linea di difesa: ha “trasformato” la legge di bilancio da triennale (come sta scritto in quella noiosa sequenza di regole per iniziati chiamata Legge di contabilità ), ad annuale. Così, la riduzione del cuneo fiscale per un solo anno non è una misura disperata per non tornare indietro rispetto alle misure post pandemia (quelle sì, per definizione, annuali perché straordinarie). È addirittura “il primo passo della riforma dell’IRPEF”. E pazienza se nella stessa legge di Bilancio sta scritto a chiare lettere -alle colonne 2025 e 2026-, che il Governo Meloni “programma” che questo passo non sia il primo (perché viene dopo quello sostanzialmente identico del Governo Draghi), ma l’ultimo.
Non so se funzionerà per consentire a Meloni di fare una “buona“ campagna elettorale per le Europee di primavera (nelle quali -si dice- sarà capolista di Fratelli d’Italia in tutte le circoscrizioni). So per certo che, per l’Italia, questo disperato schiacciamento sul brevissimo termine del discorso pubblico e dell’azione di Governo è foriero di rischi enormi.
Non c’è solo la congiuntura economica che peggiora (la previsione di una crescita del Pil 2024 attorno all’1,2% sul 2023 è ancora ottimistica, poiché entreremo nel nuovo anno a velocità bassissima, per il rallentamento del secondo semestre di quest’anno ). E non ci sono solo le conseguenze negative della scelta operata dal Governo Meloni sul PNRR: fermo che una revisione andava fatta, non era affatto necessario che fosse così radicale (c’è un vantaggio: la smetteranno di dire che il PNRR è “dei governi precedenti”. Adesso è davvero di quello attuale), tanto da costringere a fare non meno, ma più debito pubblico. Ed era ancora meno necessaria la scelta di cambiare ben 10 obiettivi su 27 della quarta rata, a pochi giorni dalla richiesta di pagamento.
C’è soprattutto l’incertezza sulle nuove regole del Patto di stabilità che ci lega agli altri partner dell’euro. In proposito, Meloni, con il convinto sostegno di Giorgetti, è all’autolesionismo: sotto l’impulso dei Commissari Gentiloni e Dombrovskis, la Commissione europea ha avanzato una proposta di revisione delle regole del Patto di stabilità che ha contemporaneamente il pregio di superare le rigidità (“stupidamente procicliche”) del Patto precedente (sospeso dalla esplosione della pandemia ad oggi) e quello di lasciare aperta la prospettiva per creare -dopo il primo, grande passo del Next Generation EU- una vera capacità fiscale dell’Unione.
Invece di sostenere questo disegno -sostanzialmente fondato su intese di medio termine con ogni Paese sugli obiettivi di finanza pubblica e su di una regola che sovraintenda all’evoluzione della spesa negli anni-, Meloni e Giorgetti hanno pensato di potersi rafforzare da un lato non ratificando il MES, dall’altro puntando alla proroga della sospensione delle vecchie regole (disperatamente, almeno per un anno). Infine, e in subordine, cercando di ottenere l’esclusione dal computo di alcune spese di investimento (per esempio, quelle relative alla restituzione dei prestiti del PNRR). Non c’è da stupirsi che ne stia risultando una débâcle. La proroga non è considerata accettabile da nessuno: o si approvano ora le nuove regole, o tornano in vigore le vecchie. L’Italia è isolata rispetto ai Paesi (Francia, Spagna, Portogallo) che hanno avuto un grande ruolo nel definire la proposta della Commissione (accettando la regola sull’evoluzione della spesa, si potrebbe lavorare sulla dinamica degli investimenti su energia, ambiente, digitalizzazione e difesa. Ma se la si boccia…). Mentre i partner europei-che hanno provveduto da mesi alla ratifica del “nuovo“ MES (rispetto al “vecchio“ c’è un’unica, vera novità: un sistema di “assicurazione“ contro la crisi di banche che abbiano un rilievo sistemico)-, si dividono tra quelli che sono “soltanto” irritati con l’Italia per il suo incomprensibile tergiversare, e quelli che ne approfittano per sostenere la loro battaglia contro la proposta Gentiloni-Dombrovskis: come potete pensare che funzioneranno, con l’Italia, le intese di medio tempo sugli obiettivi di finanza pubblica, se non ratificano un accordo che hanno solennemente firmato ormai qualche anno fa?
Se si vuole capire perché l’intera fase di preparazione della legge di Bilancio è stata dominata dall’incertezza è a questa disastrosa condotta del rapporto con gli altri partner dell’Unione che bisogna guardare.
E l’opposizione? Beh, il PD una giusta l’aveva fatta, quando aveva costretto il Governo a misurarsi con il tema della ratifica del MES: un disegno di legge, la sua iscrizione all’ordine del giorno del Parlamento, il dibattito, la richiesta di andare al voto. La risposta di Meloni era stata (per lei e la sua maggioranza) umiliante: la fuga del Governo dal Parlamento. Con l’iniziativa sul salario minimo per legge, è stata un’occasione nella quale l’opposizione ha messo in difficoltà il Governo. Ora però, nella imminenza della Legge di bilancio, la Segretaria del PD sembra tornare a rifugiarsi nella sua “vocazione minoritaria“. Prima rimette in discussione la scelta sul 2% per le spese di difesa (per di più, contrapponendo difesa europea e Nato: un vero capolavoro, nel tragico contesto internazionale). Poi l’adesione preventiva ad un referendum che nessuno ha indetto, contro una legge voluta e scritta dal PD (il cui vero, grave limite non è scritto nella legge, ma nella sua cattiva gestione: le politiche attive sono ancora al palo). Infine, la Costituzione si attua e non si cambia, con tanti saluti all’impegno non solo del (giovane) PD, ma dei partiti del centrosinistra che l’hanno preceduto ed avevano ben compreso che, proprio per attuare la prima parte (articolo 3: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…), c’è bisogno di un Governo meno debole di quello descritto nella parte ordinamentale della Carta fondamentale (Dossetti dixit). Impegnato in questo cammino a ritroso, il PD sembra trascurare il confronto -italiano ed europeo- sulla politica fiscale ed economica.
Eppure, lo spazio per proposte al tempo stesso popolari e sostenibili ci sarebbe. Due esempi basteranno. Il primo, ha che fare con il grande tema del livello dei salari (di tutti i salari, non solo di quelli bassissimi). I dati sono chiari: in termini macro -nel contesto inflattivo cui non eravamo più abituati- i profitti sono cresciuti molto più dei salari. Al punto che, in Europa, nell’ultima fase, non è illegittimo parlare di inflazione da profitti. Sto parlando di un dato macroeconomico: dedurne che ogni impresa ha visto crescere i propri profitti, sarebbe semplicemente una sciocchezza. Così come iniziare immediatamente la ricerca del “colpevole”, sul quale fare un po’ di demagogia a buon mercato (vedi alla tassa/farsa sugli extraprofitti delle banche: destra e sinistra unite per costruire gettito zero). In presenza di questo dato di fatto, sembra che la sinistra sociale e politica -almeno in Italia- sia capace solo di pensare ad un riequilibrio del rapporto salari/profitti… da mettere a carico del Bilancio pubblico. Che la riduzione del cuneo fiscale possa contribuire, è certamente vero. Oggi però la mano più robusta la può dare un’intensa stagione di sano conflitto sociale tra lavoratori e imprese. È nell’interesse anche di queste ultime che i salari crescano, sia per sostenere la domanda interna (che sta cedendo, con l’affievolirsi dell’illusione monetaria dell’immediato post pandemia), sia per accompagnare l’aumento della produttività (che è fonte di valore dell’impresa). Perché non proporre, durante la Sessione di Bilancio, un insieme di norme -fiscali e regolatorie- che favoriscano lo sviluppo della democrazia economica e della contrattazione di secondo livello?
Il secondo esempio, ha a che fare col tema della partecipazione delle donne alle forze di lavoro. In Italia, è troppo bassa. Potrebbe servire, a favorirne l’innalzamento, la sperimentazione -a partire dal Sud- della tassazione IRPEF differenziata a favore del reddito da lavoro delle donne. Di tutte le donne, lavoratrici dipendenti e autonome. Il ministro Giorgetti ha proposto una sorta di “bonus secondo figlio”: sbaglierò, ma credo che sarebbe di gran lunga preferibile una misura strutturale di riduzione del prelievo IRPEF sui redditi da lavoro delle donne. Sia perché l’innalzamento della partecipazione delle donne alle forze di lavoro -che questa misura non può provocare, ma può certamente favorire- costituisce, unitamente ad un effettivo governo degli ingressi di manodopera immigrata , l’unica risposta praticabile nel medio tempo alla voragine che la crisi demografica sta aprendo nel nostro mercato del lavoro. Sia perché -in assenza delle risorse finanziarie necessarie per realizzarla simultaneamente in tutto il Paese- potrebbe essere sperimentata solo in alcune Regioni del Sud. Sia infine per il suo intrinseco valore culturale: una forte discriminazione fiscale positiva a favore delle donne dice- a proposito del riequilibrio delle opportunità di genere che il Paese deve e può realizzare- più di mille bonus per la promozione e la tutela delle donne e della maternità.
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)