LibertàEguale

La libertà eguale per il progresso dell’Europa

di Vittorio Ferla

 

 

Nei giorni scorsi Michele Salvati ha rivolto un appello a Libertà Eguale: “farebbe opera meritoria se impegnasse i migliori tecnici e studiosi che riesce a raggiungere nell’elaborazione delle linee guida di un governo di sinistra liberale”. Non solo, dunque, la necessaria attività di critica al governo gialloverde a partire dai valori della sinistra liberale e da una lettura realistica della realtà sociale, economica e istituzionale italiana. Ma anche una elaborazione approfondita – linee guida, libro bianco, ecc. – “che dia un’idea chiara della direzione in cui la sinistra liberale intende muoversi”. In sostanza, per “non farsi trovare impreparati se un’occasione di governo si presentasse”.

Ovviamente – riconosce Salvati – si tratta di un processo lungo e complesso che richiede l’impegno di diverse forze, prima di tutte un partito politico adeguato alla sfida. Libertà Eguale può, però, con le sue forze, attivare un processo per coinvolgere e ispirare altri soggetti – policy communities, riviste, fondazioni, ecc. – al fine di ricostruire la trama e l’ordito di una cultura politica (e di un programma di governo) di stampo progressista, europeista e riformista.

 

 

La sfida globale e il compito dei riformisti

L’eredità di questi anni è la destrutturazione del sistema dei partiti a livello europeo. Com’è noto, tranne rare eccezioni (Portogallo), i partiti socialisti sono in difficoltà quasi ovunque, vittime di un crollo verticale dei consensi. Ciò significa – tra le altre cose – che una nuova prospettiva democratica e riformista europea non si può ricostruire sulle macerie del socialismo novecentesco. Certo, lo scenario europeo dei partiti democratici e progressisti è confuso. Difficile comprendere il posizionamento dei singoli soggetti alla luce degli schemi ideologici tradizionali.

Le elezioni di maggio 2019 saranno cruciali per diversi motivi, ma principalmente per capire se le forze democratiche ed europeiste saranno in grado di riorganizzarsi di fronte all’avanzata populista. Questa sfida – sulla quale tornerò dopo – è decisiva anche per la ridefinizione dell’identità dei progressisti italiani. Non è più possibile, infatti, ragionare del proprio posizionamento se non all’interno di un quadro europeo in rapido mutamento.

L’osservazione si complica se guardiamo in Italia.

Dopo aver fatto tutto il possibile per boicottare il riformismo di governo, la sinistra tradizionale si limita oggi a proporre la riedizione stanca di ricette assistenziali nazionali, strizza l’occhio al populismo nazionalsocialista pentastellato e vagheggia un immaginifico campo democratico che non esiste più.

I riformisti, nel frattempo, non sono più l’intelligenza minoritaria di dieci o venti anni fa: grazie anche al ciclone Renzi sono cresciuti di numero e hanno conquistato consensi. Oggi però, con la crisi della leadership, annaspano, divisi tra diverse opzioni.

Al di là di coloro che – riformisti per caso o per convenienza – si adattano in modo opportunistico alle stagioni della politica, i riformisti autentici si trovano dispersi qua e là. Solo nel Pd possiamo contare almeno tre opzioni: un nucleo più coriaceo e combattivo nella mozione Giachetti-Ascani, orgoglioso della stagione riformista appena conclusa, che rivendica una chiarezza di ruolo per l’opzione liberaldemocratica nella sinistra; un gruppo di mediazione autocritica nella mozione Martina, affezionato alle riforme realizzate ma sensibile alla domanda di protezione sociale che proviene dal voto; perfino alcune brillanti punte di lancia nella mozione Zingaretti, animate dalla speranza che il pragmatismo dell’amministratore prevalga sui cascami ideologici e di apparato. In più bisogna ricordare la vivace e interessante esperienza dei comitati civici lanciati in occasione dell’ultima Leopolda che stanno costruendo reti di impegno in tutta Italia. Riformisti si trovano anche fuori del Pd: nella tradizione socialista e riformista a sua volta frammentata, nell’area liberaldemocratica ed europeista di +Europa, nei gruppi di cattolicesimo democratico.

Ovviamente, al di là degli schieramenti, la cosa più importante è capire se esiste un terreno favorevole per sviluppare un progetto riformista. La sensazione è che – anche alla luce della cattiva prova delle politiche populiste – questo terreno possa riemergere soprattutto tra quei soggetti che, in quanto ‘produttori’ di valore per il paese, vogliono investire sullo sviluppo e sulle riforme costruendo una società aperta, alternativa alle rendite corporative, al nazionalismo assistenziale e alle narrative xenofobe espressione di una società chiusa.

Per sviluppare questo progetto riformista servono organizzazione e competenze. A cominciare dal partito che in questo decennio di vita non è stato capace di utilizzare l’enorme partecipazione popolare di milioni di votanti alle primarie né ha saputo allestire un’adeguata capacità di stare nel web. Inoltre, la pochezza dei personaggi attualmente al governo non deve illuderci circa la necessità un lavoro serio di selezione della classe dirigente anche sul versante dei democratici. Ripensare il partito, costruire classe dirigente, produrre cultura, sviluppare competenze, declinare le nuove policies, elaborare una cultura condivisa.

In tutto ciò Libertà Eguale dovrà caricarsi di un compito nuovo. Se alla fine degli anni ’90 l’obiettivo era quello di contribuire alla costruzione della casa comune dei Democratici raccogliendo il contributo delle diverse tradizioni dell’impegno politico progressista, oggi, nella frammentazione che abbiamo appena delineato, Libertà Eguale potrà utilmente offrire uno spazio di elaborazione e confronto per tutti i riformisti che hanno a cuore le sorti del progressismo liberaldemocratico.

 

 

I pilastri di un approccio riformista

 

Progresso

La prima parola chiave è: progresso. Un tema che pare ormai sparito dall’agenda politica del paese.

La moderna idea di Progresso, fondata sullo sviluppo etico, civile e sociale degli uomini e delle donne, sull’affermazione della democrazia e sul buon governo della repubblica, sulla marcia positiva della scienza, della tecnica, dell’economia, sembra oggi archiviata in Italia. La modernizzazione del nostro paese non appare più l’obiettivo della politica.

L’Italia vive in un paradosso: proprio nella fase della storia umana che più conosce strabilianti progressi e che richiede il massimo investimento sul futuro, il paese si ripiega su se stesso. In preda all’insicurezza, gli elettori hanno premiato forze populiste e conservatrici che hanno impostato il loro programma di governo sulle politiche della chiusura. Chiusura contro gli immigrati che vengono dall’Africa, chiusura contro le decisioni pubbliche basate sulle evidenze scientifiche, chiusura contro le opportunità tecnologiche di sviluppo che ci favorirebbero nella competizione globale, chiusura nelle rendite corporative contro il futuro delle giovani generazioni, chiusura nello statalismo burocratico e assistenziale che mortifica l’iniziativa delle imprese e le capacità delle persone.

Serve pertanto una nuova stagione di impegno per la modernizzazione del paese.

Certo, l’Italia soffre una eredità pesante: un debito eccessivo costruito nel corso degli anni ’80 – alimentato da una spesa pubblica scriteriata ispirata al metodo spartitorio della rendita consociativa – unito alla mancanza di crescita economica significativa per due decenni. La priorità fondamentale dell’Italia dovrebbe essere, pertanto, il rilancio della crescita. Il problema è che questo obiettivo non può essere realizzato allentando il freno alla spesa pubblica.

La maggior parte dei problemi della crescita italiana viene dal lato dell’offerta, non dal lato della domanda. Come documentato dalla Banca d’Italia, la performance produttiva del Paese è davvero sconfortante (-0,1% annuo, rispetto ad aumenti dello 0,6% in Spagna, 0,7% in Germania e 0,8% in Francia). Inoltre, la popolazione in età lavorativa è destinata a diminuire dello 0,5-1% all’anno nei prossimi anni. L’onere di rimborsare il debito ricadrà su una forza lavoro minore.

Aumentare la produttività è imperativo. La politica economica dovrebbe mirare a ridurre il divario tra le imprese più grandi (spesso campioni di innovazione le cui prestazioni corrispondono a quelle dei loro omologhi tedeschi o francesi) e quelle più piccole dove la produttività è dimezzata (anche a causa di una gestione familiare che tende a selezionare e premiare le persone sulla base della fedeltà invece che per merito).

 

 

Europa

Negli ultimi anni l’Europa è finalmente entrata nel cuore del dibattito pubblico italiano. Se, fino a poco tempo fa, tutto ciò che sapeva di Europa era relegato nel circuito ristretto degli specialisti, adesso non è più così. E le elezioni europee del maggio 2019 rappresentano uno spartiacque nella storia della comunità europea. Certo, sappiamo bene che l’Europa non gode oggi di buona fama. In parte, a causa della demagogia populista che ne fa il capro espiatorio di tutti i mali, in parte per sue obiettive difficoltà, a partire dalla contraddizione tra la dimensione istituzionale comunitaria e quella intergovernativa.

L’Europa è stata nel dopoguerra garanzia di pace, prosperità e libertà. Essa nasce sotto l’impronta del riformismo e del gradualismo. Il mercato comune e la moneta comune rappresentano, infatti, con i loro passaggi lenti ma decisivi, il cuore di un processo di scambio e di collaborazione tra paesi che in passato si facevano la guerra. L’economia, pertanto, non può leggersi come un minus rispetto ad una più profonda unione politica, ma uno strumento vincente che ha superato gli egoismi degli stati nazionali e ha assicurato la convivenza tra i popoli europei.

Oggi serve rifondare e rinnovare quello slancio per conseguire una unità più piena. L’Europa, infatti, rappresenta la dimensione necessaria e indispensabile per affrontare le sfide della globalizzazione laddove i singoli stati nazionali non sono più in grado da soli di farlo. La sinistra deve comprendere questo passaggio storico cruciale rinunciando al mito del nazionalismo economico per sposare definitivamente la prospettiva comunitaria. Ciò significa promuovere la partecipazione dei cittadini alla costruzione dell’unione, aumentare il grado di collaborazione tra gli stati europei, rafforzare le istituzioni comunitarie.

Significa anche sviluppare le politiche comuni necessarie, per esempio, per governare l’immigrazione, per assicurare la difesa comune, per tutelare i cittadini nelle situazioni di difficoltà economica e sociale. Serve a questi scopi la costruzione di un bilancio comune europeo, capace di affiancare un pilastro sociale al pilastro economico.

Allo stesso modo, servirà in futuro lavorare per aumentare la capacità di governo delle istituzioni europee e costruire liste transnazionali per l’elezione dei rappresentanti nel Parlamento europeo. La riforma delle istituzioni e delle politiche europee deve diventare il compito storico della sinistra liberale nei prossimi decenni.

 

Riforme

Riforme, dunque. Come quelle in parte realizzate o appena avviate nel corso degli ultimi anni dai governi a guida democratica: quando analizzeremo con lucidità questi anni potremo riconoscere senza timore di aver vissuto una stagione riformista importante, al di là degli errori o delle difficoltà che pure ci sono stati.

Allo stesso tempo, per i motivi che abbiamo su elencato, occorre preparare una nuova stagione delle riforme per garantire il cambiamento necessario. Viceversa, la promessa di cambiamento formulata nel programma delle forze populiste – di destra e di sinistra – è una promessa falsa. In molti casi si tratta di conservatorismo puro e semplice, in alcuni casi di vuota demagogia mediatica, in altri casi di vere e proprie controriforme che ci riportano indietro di anni. Basti pensare che le due riforme simbolo del governo gialloverde – reddito di cittadinanza e quota 100 – per il modo in cui sono state pensate e realizzate rappresentano plasticamente il ritorno di un metodo di governo – quello della redistribuzione spartitoria, già conosciuto nella nostra storia – che poggia sulle rendite corporative e sullo scambio clientelare.

Nonostante la rimozione collettiva successiva al 4 dicembre 2016, la riforma delle istituzioni è ancora necessaria. La Repubblica deve darsi strumenti più adeguati per affrontare le sfide della globalizzazione e per svolgere un ruolo nella dimensione europea. Servono governi forti e stabili, eletti sulla base di maggioranze omogenee, capaci di realizzare le policies indicate nel loro programma e di incarnare un profilo coerente e autorevole nelle istituzioni europee. Serve migliorare la dinamica istituzionale tra esecutivo e legislativo. Inoltre, serve ristabilire un corretto equilibrio di competenze tra il livello nazionale e quello regionale. Senza la riforma della Costituzione sarà complicato anche rilanciare le riforme economiche.

E qui si apre un capitolo cruciale, perché – come abbiamo già visto sopra – la mancanza di investimento sul merito e sulle competenze (unita al familismo e al clientelismo) rappresentano un peso micidiale sulle prospettive di progresso dell’Italia. Un peso che grava anche sulle istituzioni pubbliche che dovrebbero garantire la implementazione delle policies e la qualità dei servizi ai cittadini e alle imprese.

Basti pensare a tre casi esemplari.

In primo luogo, il funzionamento delle amministrazioni pubbliche in generale. La PA italiana fatica a diventare uno strumento al servizio dello sviluppo, si mostra refrattaria alle modalità di lavoro manageriali, non è mai riuscita a svolgere la valutazione della qualità dei servizi e della produttività dei dirigenti. Ciò significa che qualsiasi tipo di riforma, anche la più intelligente o rivoluzionaria, è destinata a infrangersi sullo scoglio di ‘attuatori’ indisponibili al cambiamento.

In questo quadro un capitolo ciascuno meritano la scuola e la giustizia. Si tratta di due amministrazioni cruciali.

La scuola italiana avrà sempre più un ruolo fondamentale per diverse ragioni: soluzione alla dispersione e al fallimento scolastici, investimento sul merito per garantire l’emancipazione sociale e la crescita professionale, l’allineamento tra sistema educativo e sistema produttivo, l’aumento dell’attrattività degli istituti scolastici e universitari per gli studenti di tutto il mondo.

A sua volta, l’amministrazione della giustizia è tristemente nota per lentezza e inefficienza. Le conseguenze sono inevitabili sul piano economico: riformare la giustizia e prevedere l’impatto delle decisioni giudiziarie sui processi economici e sociali diventa un impegno strategico per il progresso del paese.

In un elenco – appena accennato – di riforme necessarie non può mancare l’eterna frattura tra Nord e Sud. Da un parte, bisogna rispettare e valorizzare la locomotiva settentrionale che fa dell’Italia una delle potenze economiche mondiali. Dall’altro, bisogna offrire al Sud maggiori opportunità di sviluppo liberando le energie e le risorse locali dall’oppressione clientelare della politica, dall’inefficienza delle burocrazie, dalla piaga dell’illegalità.

 

Una Fondazione dei progressisti europei

In questi mesi, raccogliendo in qualche modo lo stimolo di Salvati, Libertà Eguale sta lavorando per il rilancio di una Fondazione ispirata alla tradizione dei democratici e riformisti italiani, fermamente collocata nell’alveo della cultura liberalsocialista, disegnata dal discorso del Lingotto e realizzata nella vocazione maggioritaria nel corso degli anni di governo del centrosinistra.

L’identità dei democratici italiani è ancora troppo giovane e quindi reversibile: proprio per questo, va strutturata e alimentata con profonde basi culturali e programmatiche. Serve guardare avanti declinando e sviluppando la miscela di libertà e uguaglianza in un orizzonte progettuale nuovo all’altezza delle sfide del nostro secolo. La vecchia soluzione statalista, assistenzialista, egualitarista e – di conseguenza – sovranista non aiuta a risolvere queste sfide.

Occorre riscoprire le ragioni profonde che hanno ispirato il cammino dei democratici e riformisti tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo.

Tra l’altro, per esempio: dire sì all’Europa costruendo una politica di bilancio europea e rafforzando le politiche pubbliche comunitarie in partnership con i paesi fondatori; dare spazio alla concorrenza e alla forza innovativa delle imprese; conciliare i premi ai meritevoli con le giuste aspirazioni di chi soffre il disagio sociale ed economico; integrare bene e selettivamente gli immigrati per evitare che siano percepiti come una minaccia; ridare fiato allo sviluppo con una politica di crescita economica e di ammodernamento delle infrastrutture fisiche e digitali; dire sì senza pregiudizi alla scienza, alla tecnologia e al progresso. In una parola serve modernizzare il nostro paese, non certo ritornare alla sinistra storica novecentesca né sorreggere la nuova sinistra populista.

Da questa produzione culturale dovrà derivare poi un precipitato di conoscenze e di competenze necessarie per lo sviluppo di una classe dirigente preparata e aperta, diffusa su tutto il territorio nazionale, soprattutto tra i giovani. Qui nasce l’esigenza di un’attività permanente di formazione in un momento di grande vuoto provocato dall’estrema disponibilità di informazione prive di mediazioni e dalla crisi delle agenzie sociali tradizionali e delle istituzioni pubbliche tradizionalmente dedicate al trasferimento dei saperi.

Il cammino dei riformisti italiani, inoltre, è sempre stato segnato dal confronto con l’evoluzione delle socialdemocrazie in Europa e del mondo liberal americano.

Da un lato, la progressiva emersione dei socialisti europei dalle tradizioni ideologiche novecentesche e l’allargamento delle forze politiche progressiste per accogliere il contributo delle diverse culture politiche: dal socialismo democratico al cristianesimo sociale, dal riformismo liberale al moderno ambientalismo.

Dall’altro, il messaggio e le pratiche della tradizione democratica americana fondata su: diritti civili, empowerment delle categorie svantaggiate, forza di istituzioni federali solide e di un sistema di governo efficace, sviluppo delle capabilities degli individui, misure per la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria.

La Fondazione vuol dare un peso centrale al dialogo con i progressisti europei e americani sviluppando occasioni di confronto diretto e di scambio di idee e informazioni e favorendo la diffusione del prodotto di quelle culture nel nostro paese attraverso attività di traduzione e di pubblicazione di materiali e documenti.

 

Formazione, ricerca, dibattito

Noi intendiamo procedere in questo solco ideale e politico facendo della Fondazione uno strumento di incontro, di dialogo, ma anche di iniziativa, fra quante e quanti ritengono che sia necessario mettersi in gioco e contribuire alla creazione di una alternativa al populismo sovranista che oggi governa l’Italia.

L’impegno sarà orientato verso:

– la realizzazione di attività formative decentrate per mettere in contato le giovani generazioni di militanti, amministratori, quadri politici, con la complessità della politica, i suoi dilemmi, ma anche le sue risposte alle dinamiche sociali;

– la progettazione di iniziative di dibattitto sui nodi cruciali della politica contemporanea tra intellettuali, esperti, dirigenti politici in una chiave di confronto aperto e problematico;

– l’elaborazione di progetti di ricerca utili a irrobustire le conoscenze indispensabili perché l’agire politico sia sempre più consapevole e competente.

La crisi del progressismo democratico in tutto l’Occidente costituisce uno sprone per rafforzare l’impegno. Un rinnovato strumento di progettazione e di formazione può essere utile per colmare una carenza oggi evidente. Per questo servirà il contributo di tutti.

 

 

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