di Nicolò Addario
I recenti risultati delle elezioni politiche ci portano a considerare nuovamente la tradizione populista fascista. Tanto più che gli attuali eredi del fascismo (Fratelli d’Italia) hanno fatto lo stesso clamoroso errore degli eredi della tradizione cattocomunista (oggi PD), ossia non hanno criticato nel modo dovuto gli orrori compiuti dalle tradizioni da cui provengono. Tanto più che il partito della Meloni è l’erede diretto del MSI, cioè il partito che per definizione era estraneo al cosiddetto “arco costituzionale” (e di cui faceva invece parte il PCI). Questo non vuol dire che si tratti di un partito ancora fascista. Vuole invece dire che, nonostante l’indubbia investitura popolare, vi sia un fondato sospetto su quale sia la vera identità politico-culturale del suo gruppo dirigente (alimentata anche dai legami mai del tutto rescissi con gruppetti di neonazisti, come ogni tanto la cronaca fa emergere, anche recentemente per non parlare degli scivoloni di La Russa, che si fa riprendere mentre mostra i busti di Mussolini che tiene in casa).
Tanto più che le prime mosse del governo non sono certo state molto felici. Forse se ne potrebbe parlare in termini di una Sindrome che è una via di mezzo tra un “sovranismo alla Orban” e un “sovranismo all’italiana” (tipo quello della Lega), ma schierato con la Nato. Qualcuno ne ha parlato come di una possibile sindrome Polacca, ma il modo in cui la Polonia e l’Ungheria hanno reagito all’invasione dell’Ucraina mette in luce una differenza di fondo. Questo perché la Polonia ha una lunga storia di occupazioni russe, dai tempi degli zar sino a quelli della Russia sovietica (per non parlare della spartizione con il nazismo del 1939) e questo la rende irremovibilmente schierata con l’Occidente. Orban è invece assai più ambiguo e flirta con Mosca. La Meloni è quindi una via di mezzo tra Polonia decisamente pro Nato e populismo sovranista alla Orban. In ogni caso il punto realmente importante è che l’attuale gruppo dirigente che circonda Meloni non tiene conto che, sebbene legittimata dal voto popolare, la storia da cui proviene continua a pesare come un enorme macigno, e non solo sul piano culturale (come appunto si può già vedere dalle prime scivolate del governo, anche per quanto riguarda la legge di bilancio, il Pnrr e il Next Generation EU), ma in definitiva anche sul terreno propriamente politico. Basta guardare al sospetto con cui viene osservata, anche recentemente, dai paesi europei. A mio parere questo accade perché non è stata fatta quella esplicita autocritica dei legami con il passato fascista (accentuata dal nostro confuso meccanismo elettorale).
Tenendo conto che un problema analogo ha il PD, si può realisticamente ipotizzare che la mancanza di una radicale e ufficiale autocritica sia un grave errore del gruppo dirigente, che prima o poi verrà pagato (come ben già si vede nel PD). Un errore che non credo sia dovuto a inconsapevolezza del problema (lo si intuisce da certe prudenze di Meloni, soprattutto per quanto riguarda le alleanze internazionali e l’Unione europea), ma da un più profondo problema culturale, e quindi da una storia (anche personale) da cui il gruppo dirigente non si è mai voluto del tutto separare. Le mosse fatte in questa direzione da Fini non approdarono a nulla di significativo, sia per le ambiguità con cui furono realizzate sia per le vicende scandalistiche che lo colpirono. Si dovrebbe tenere conto che il recente successo di Giorgia Meloni è stato troppo repentino e almeno in parte è dovuto alle sconfitte sia della Lega che di FI e che questo successo potrebbero rovesciarsi (sui populismo italiani e le tradizioni da cui provengono si veda il Quaderno della fondazione PER https://perfondazione.eu/quaderni/radiografia-del-populismo-italiano/).
Un contributo al permanere di queste ombre viene in realtà dal fatto che in Italia non ci furono né un processo di Norimberga né un’epurazione degli ex miliziani fascisti, soprattutto tra i ranghi della Pubblica amministrazione, a iniziare dal Prefetti con cui, per dirla con De Felice, fu iniziata la “fascistizzazione” dello Stato (l’amnistia firmata da Togliatti nel giugno del 1946). Si deve inoltre aggiungere, anche se oggi sembra meno rilevante, che di fatto il PCI si appropriò dell’ANPI, sminuendo così il contributo di tutte le altre componenti, sia laiche che cattoliche, alla lotta partigiana. Per gli elettori non politicizzati la natura propriamente dittatoriale del regime fascista fu così coperta dalla frattura tra comunisti e anticomunisti, che dal dopoguerra era di gran lunga predominante. Cosa facilitata anche dal fatto che il reato di apologia del fascismo è stato uno dei reati più ignorati, anche in molti casi molto evidenti. Già alla fine del 1946 un partito di chiara ispirazione fascista, il Movimento Sociale Italiano, si era ricostituito (fondendosi in seguito con i partiti monarchici). Negli anni Sessanta-settanta l’MSI in vario modo coprì manovre eversive come il tentato golpe di Junio Valerio Borghese, “servizi segreti deviati”, logge massoniche come la P2. Gruppi estremisti, con cui mantenevano rapporti, hanno alimentato il terrorismo di destra. Ancora oggi gruppi di tifosi facinorosi fanno il saluto romano, ingiuriano gli ebrei, inneggiano alle SS. E’ appena di alcune settimane fa il caso di un gruppo neonazista che ha assalito e devastato la sede della CGIL romana. Uno dei capi, pur arrestato e denunciato è stato tra gli eletti di FdI.
È storicamente provato che, quando Gianfranco Fini sciolse l’MSI per fondare Alleanza Nazionale (nel 1995), pur dichiarando che l’epoca del fascismo era definitivamente tramontata, che AN aderiva ai valori della democrazia e riconosceva il significato positivo dell’antifascismo, le ambiguità non furono affatto sciolte. Fini continuò infatti a sostenere la favola che Mussolini “aveva fatto molte cose buone” e che era stato uno dei più grandi statisti del XX secolo. In breve, è stato soltanto il tentativo di “aggiornarsi” senza fare veramente i conti con la propria storia: una sorta di “defascistazione del fascismo”, come ha sostenuto Emilio Gentile (Fascismo. Storia e interpretazioni, Laterza, 2002). Cosa ci sia poi di “aggiornato” nel riproporre un nazionalismo populista, di spiccate tendenze stataliste e corporative, non è dato sapere. Soprattutto nel contesto dell’Occidente, in cui il destino dell’Italia è strettamente legato a quello dell’Unione Europea e della Nato.
L’auto-assoluzione fu peraltro molto facilitata e definitivamente legittimata dall’opportunismo politico di Berlusconi che, in funzione elettorale anti-sinistra, aveva sdoganato l’MSI di Fini, prima ancora che questi fondasse AN. Si potrebbe sospettare che, sul piano elettorale, il populismo berlusconiano si conciliasse molto bene con il populismo sostanziale degli eredi del fascismo storico. Lo sdoganamento di fatto era però già avvenuto nel primo dopoguerra, perché la DC aveva privilegiato nettamente l’opposizione al PCI (nonostante l’Arco costituzionale) perché, nel clima politico-culturale creato dalla cortina di ferro, il partito comunista era considerato il vero partito antisistema, e molti cittadini che provenivano dal fascismo e/o erano anticomunisti votavano democristiano (soprattutto nel Sud).
Insisto sulla dimensione populista del fascismo, perché l’attuale dibattito sui populismi spesso dimentica che vi sono stati delle forme di populismo già nell’Ottocento, e che il fascismo fu anche una forma di populismo cesarista, altamente statalista e gerarchica. Il suo tentativo di ottenere un consenso di massa si fondava infatti, da un lato, su una sistematica propaganda di stato e, dall’altro, su un altrettanto sistematico ricatto: era di fatto impossibile mantenere il posto di lavoro se si manifestava anche il minimo dissenso. Sebbene il sistema corporativo non sia mai riuscito a operare realmente, e tanto meno diffusamente, le masse sapevano bene che il partito-stato aveva orecchie dappertutto. Oltre ai servizi segreti, c’erano informatori ovunque. Il culto di Mussolini è un aspetto non secondario del totalitarismo fascista, un tratto che in seguito troveremo in Hitler e, in modo apparentemente paradossale, da Stalin a Mao Zedong, ma anche Xi Jinping (che probabilmente è più pericoloso di Putin). Di fatto vi sono degli aspetti che avvicinano i due tipi di totalitarismo, più di quanto si è soliti credere (ma si veda H. Rousso, a cura, Stalinismo e nazismo. Storia e memoria comparate, Bollati Boringhieri, 2001 e F. Dikötter, La Cina dopo Mao. Nascita di una superpotenza, Marsilio, 2022), uno dei quali è certamente il culto del capo.
Come ha ben detto Paul Corner, “al suo apice … il culto dipinse Mussolini come onnipotente e dotato di una tale girandola di competenze da eguagliare l’autentico uomo del Rinascimento. Era dipinto come uomo qualunque e insieme come superuomo; come lo statista trionfante, invidiato dalle altre nazioni, ma allo stesso tempo a suo agio con gli intellettuali … come uomo del popolo, capace di raccogliere il grano insieme a un contadino senza rendersi ridicolo. Era la quintessenza del latin lover ma anche il marito ideale … Era avventurosamente moderno; poteva guidare auto veloci, pilotare aerei e domare cuccioli di leone”, così via cantando (Mussolini e il fascismo. Storia, Memoria e amnesia, Viella., 2022, p. 130 e ss.).
Quello che colpisce di più è però l’assenza di memoria da parte di molti italiani, soprattutto per quanto riguarda la natura dittatoriale del regime. Anche negli anni in cui godeva indubbiamente di un certo consenso (fino al 1934) si trattava spesso di un consenso di facciata, ben sintetizzato da un operaio quando disse: “tesserato sì, fascista no”. Insomma, nel dopoguerra è nettamente prevalsa l’interpretazione secondo cui, nonostante alcune cose cattive fatte dal fascismo, in generale valeva il detto “Italiani brava gente”. Diversamente da quello che è accaduto in Germania, dove non si è esitato a discutere apertamente della dittatura nazista e del coinvolgimento dei tedeschi con il regime e le sue malefatte, in Italia non si è fatto questo, ma si è cercato di sostenere che “Mussolini aveva fatto molte cose buone”. Sui media è sempre nettamente prevalsa la rappresentazione edulcorata per cui anche se i fascisti incarceravano gli oppositori gli “Italiani erano brava gente” e il regime aveva fatto anche cose buone. E che comunque il fascismo non ha avuto niente a che fare col nazismo (basti pensare ai numerosi film di ambientazione fascista che hanno quasi sempre un taglio comico, a iniziare da “Il federale”).
Su questo ha ben detto Francesco Filippi: “Anche se la storiografia italiana ha compiuto, negli anni, sforzi immani e spesso dolorosi per potersi confrontare in maniera sempre più attenta con i primi cinquant’anni del ventesimo secolo italiano, il resto della società … ha avuto di fronte sempre sostanzialmente la stessa versione; nei pochi casi in cui la versione cambia, questa viene misconosciuta, abbandonata, commercialmente affossata. Partito come moto di denuncia, quella costruzione della memoria italiana attraverso la cultura di massa diventa ben presto un esercizio consolatorio, autoassolutorio… Italiani, sempre e comunque, brava gente” (“Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto ancora aperto, Bollati Boringhieri, 2020, pp. 234-35). Ovviamente, con l’eccezione dei militanti comunisti, cosa che non faceva che confermare la centralità della frattura pubblica (politico-culturale) comunisti/anticomunisti.
Oggi però da culturale l’amnesia si è trasformata in una questione propriamente politica, e di che rilevanza! Da un lato, considerando che dai primi anni Novanta il PCI è scomparso e tenendo presente questa amnesia, sappiamo come sia stato possibile che alle ultime elezioni a prevalere sia stato un partito che è ancora legato alla storia del fascismo; dall’altro dovremmo comunque cercare di spiegare come sia stato possibile che l’Italia sia da più di vent’anni governata da coalizioni in cui predominano partiti populisti. Cos’è che fa dell’Italia un paese particolarmente sensibile alle più diverse sirene populiste e così a lungo? Com’è possibile che un partito come il PD, che si definisce progressista, rincorra i Cinque Stelle che fanno della demagogia più sfrenata la loro bandiera? Per non parlare del populismo “sovranista” della destra.
La mia ipotesi è che le possibili risposte a queste domande abbiano tutte a che fare con una comune premessa che è ad un tempo culturale e politica. Ossia che nell’Italia repubblicana è di fatto assente una diffusa cultura politica liberale quale si trova in Inghilterra o in Germania, un liberalismo di fondo che sia radicato tanto nei partiti conservatori quanto nei partiti laburisti e progressisti. Persino in Francia dove c’è una forte destra populista e nazionalista, alla fine vince una coalizione liberale. È certamente il sistema elettorale che induce le due versioni dei liberali a convergere verso un comune candidato (https://www.linkiesta.it/2022/05/maggioritario-italia/).
La ragione storica della quasi totale assenza di cultura liberale in Italia è la stessa che spinse il paese tra le braccia del fascismo e, nel secondo dopoguerra, portò da una parte al predominio democristiano (con ampi spazi di populismo cattolico e pochissimo liberalismo) e, dall’altra parte, vedeva il partito comunista più forte dell’Occidente. La cultura liberale era praticamente scomparsa. Va ricordato che a proposito del caso italiano degli anni sessanta-settanta Robert N. Bellah ha parlato delle culture politiche dei socialcomunisti, dei cattolici e degli eredi del fascismo considerandole “religioni civili”, idea che riprende da Rousseau. Egli si rifà al Benedetto Croce criticato da Antonio Gramsci (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, 1955; Il Risorgimento, Einaudi, 1954). Secondo Gramsci la religione laica sarebbe una concezione che stabilisce l’unione “tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme”. Lui stesso chiarisce che il termine di religione civile coglie meglio del termine di politica il fenomeno, perché essa svolge due funzioni non considerate né dalla politica né dall’idea di ideologia. Una sarebbe di tipo “integrativo” nel momento in cui diventa un “movimento culturale” che, abbracciando nel contempo l’arte, il diritto, la filosofia e l’economia, guida di fatto molte attività pratiche. La seconda funzione è di dar forma a “una volontà collettiva nazionale-popolare”, quale egli vede nel protestantesimo e nel giacobinismo. Tenendo conto di questi aspetti, l’Italia avrebbe un problema particolare, perché il Rinascimento non avrebbe portato alla Riforma come nel nord d’Europa, mentre il Risorgimento non sarebbe stato l’equivalente della rivoluzione francese. Egli perciò indica nel marxismo la visione del mondo che dovrebbe “risvegliare la volontà collettiva nazional-popolare rimasta così a lungo addormentata in Italia” (R. Bellah, Le cinque religioni civili dell’Italia moderna, in F. L. Cavazza e S. R. Graubard, Il caso italiano, Garzanti, 2 voll., 1974, p. 440 e ss.). È per questo che Gramsci parlava del Risorgimento e dell’Unità italiana come di una “rivoluzione passiva”: le grandi masse erano rimaste estranee alla politica, mentre il liberalismo era una cultura molto elitaria, nonché devastata da decenni di “trasformismo” e frammentazione caratterizzata dalla prevalenza dei notabili locali.
Bellah cita altre due “religioni civili”. Una “liberale”, che per le ragioni accennate e dopo il ventennio fascista, lasciò ben poche tracce soprattutto a livello popolare (basti pensare ai sempre più che bassi risultati elettorali del Partito Liberale o dello stesso Partito Repubblicano). Una seconda religione civile è formata da un amalgama di religioni pre-cristiane o sub-cristiane, che sono una sorta di “basso continuo religioso”, molto diffuso nelle campagne e che fa in realtà da sfondo a tutta la cultura italiana. Su questo “basso continuo” si sarebbe sovrapposto il cattolicesimo. Il cattolicesimo italiano è sempre stato una religione civile: e ciò non soltanto per “la tendenza del cattolicesimo in generale a esprimersi in particolari forme sociali e politiche, ma innanzitutto perché il papato con le sue forti implicazioni politiche è stato per secoli un’istituzione italiana”. Un aspetto, questo, che Bellah ha trovato simile allo “shintoismo” che ha studiato nel caso giapponese e che “va sfumando nella religione della stessa struttura sociale di base, quella cioè che si identifica nella famiglia, nel villaggio, nel gruppo di lavoro.” (ivi, p. 443 e 444).
Una differenza molto importante è però che, a differenza dello shintoismo, il cattolicesimo è una religione altamente accentrata (il Papa-Re) e che questo in Italia è andato di pari passo con l’assenza sostanziale di Chiese protestanti, che invece sono state di grande impatto nell’Occidente investito dall’ondata della Riforma. In Italia (e altri paesi mediterranei) prevalse nettamente la Controriforma. La Riforma fu la base per la diffusione del pluralismo politico, particolarmente in quei paesi dove si era istituzionalizzato uno stato parlamentare d’impronta liberale (inizialmente Gran Bretagna e Stati Uniti). Il caso dello shintoismo è interessante poiché esso era la base popolare su cui poi si inserirono forme di buddhismo e di confucianesimo dando vita a un pluralismo religioso diffuso. Questo fu però soffocato da un particolare tipo di stato imperiale: la “rivoluzione Meiji” del 1868 che modernizzò il paese, importando dall’Occidente l’industrializzazione. Questa, pur minando alle radici l’assetto feudale che sino all’ora aveva caratterizzato il Giappone, era però stata messa al servizio di uno stato altamente accentrato e burocratico. L’accoppiata di modernizzazione industriale e stato imperiale (con una sorta di divinizzazione dell’imperatore) impedirono che il pluralismo religioso si trasformasse in pluralismo politico. Forse è però proprio per questo che con la sconfitta nella seconda guerra mondiale il pluralismo politico, che aveva un presupposto popolare nello shintoismo, si è affermato in modo stabile. Il Giappone è uno dei pochissimi casi di paesi dell’Asia orientale in cui il grande sviluppo economico del secondo dopoguerra è andato di pari passo con una cultura e una politica democratica e pluralista (pur inizialmente imposta dagli Americani).
Nell’Italia del dopoguerra, nonostante il grande sviluppo economico, la religione cattolica era intrinsecamente antipluralista e antiliberale. Semmai aveva il problema di affrontare quel “basso continuo religioso” che proveniva dalla sopravvivenza delle religioni pre-cristiane e di cui si parla nel libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (Einaudi, 1978), come di una “magia naturale”, con una ritualità pagana che di cattolico aveva solo l’apparenza superficiale. La metafora musicale di cui parla il Bellah vuole suggerire – ed per questo che ne parlo – che tutti gli altri registri più alti e profondi, ossia le teologie e le filosofie formali, arrivano a essere coperti da questo “basso continuo” e talvolta persino “a soffocarli interamente”. Pur essendo questo sottofondo piuttosto diffuso, la sua intensità e pervasività era variabile: “probabilmente è maggiore… in Italia che in Francia o in Inghilterra”, anche cronologicamente e geograficamente. A un confronto comparato la cultura politica italiana degli anni Sessanta, almeno al livello popolare, appare assai più frammentata (J. La Palombara, Italy: Fragmentation, Isolation, and Alienation, in L. W. Pye and S. Verba, Political Culture and Political Development, Princeton U. P., 1969, pp. 286-88).
Le conclusioni di Bellah sono così riassumibili. Questa versione della “religione civile” italiana ha fatto sì che prevalessero un interesse e una lealtà di gruppo piuttosto che un impegno civile in senso ampio anche quando erano e sono in campo ideologie politiche molto marcate. Il che ha anche contribuito a “indebolire alla radice ogni reale impegno nei valori democratici e liberali ogni volta che questi non sembravano a vantaggio dei gruppi particolari” (Bellah, ivi, p. 447; sull’impatto del protestantesimo per la nascita del pluralismo anche politico: H. Rosenblatt, Liberalismo ritrovato. Dall’antica Roma al XXI secolo, Dedalo, 2019, specie pp. 73-100).
Questo può aiutare a spiegare il perdurante prevalere delle “correnti” nei partiti sia della Prima che della Seconda Repubblica, particolarmente noto per quanto riguardava la DC, ma assai presente anche nel PCI e ancora più nel PSI. Nella Lega questo ha assunto la forma di un localismo provinciale e radicato. Del PD oggi sovente se ne parla in termini di “oligarchie da cui in realtà dipende l’elezione del Segretario”. Chi, come Berlusconi, non è più in grado di fare il “padrone” di FI, vede il partito sfaldarsi (più o meno lentamente). Forse stiamo assistendo a qualcosa di simile per il PD, non più soltanto sul piano elettorale. Ora, che le vecchie ideologie del XX secolo hanno perso mordente, attenuando così fortemente le vecchie “religioni civili” che polarizzavano il paese, i partiti sopravvissuti e/o rifondati non hanno più la presa di un tempo che fu, e questo spiegherebbe l’alta volatilità elettorale che caratterizza questi ultimi anni. Potrebbe essere questa la ragione per cui, come ha ben detto Marco Tarchi, l’Italia è diventata una sorta di “Paese di Cuccagna” dei populisti. E questo ci riconduce a quella sorta di populismo travestito che si trovava sia nei partiti dell’Arco costituzionale sia negli eredi del fascismo. Oggi non esistono più neppure quelle “religioni civili” che si erano insediate nel corso della Prima Repubblica. Ecco perché discutendo del populismo si deve parlare di “somiglianze di famiglia”: i populismi sono molti e variabili non solo nel tempo ma anche nello spazio. Solo una cosa essi hanno in comune: il rinvio a un mitico e indifferenziato popolo, inteso come una “comunità solidale” e che di fatto il popolo è nello stesso tempo il dominatore e il dominato da una qualche “Elevato” che si erige a vero interprete della “volonté de tous”, quale che sia il modo in cui ciò avviene (il che ci rimanda all’ambiguità del rapporto tra democrazia e “sovranità popolare”).
Il populismo italiano (sia esplicito che implicito) ha però una base materiale nel consociativismo spartitorio, una cosa che era stata notata sin dagli anni Ottanta, nonostante la guerra ideologica ufficiale. Osservando infatti i lavori delle commissioni in Parlamento fu notato come non vi fosse misura approvata sui cui non si fosse contratto con le opposizioni (nonostante la conventio ad excludendum del PCI), cosa che aumentò con i governi di “solidarietà nazionale” e l’autonomia regionale. Angelo Panebianco ne parlò in termini di “spartizione consociativa”, altri in chiave di “neotrasformismo”, ma l’analisi più chiara la fece Pizzorno che ne parlò come di un “consociativismo occulto”. Con la fine del PCI la guerra ideologica andò scemando mentre il consociativismo spartitorio è continuato, assumendo alcuni tratti peculiari a seconda che prevalga una coalizione di centrodestra oppure di centrosinistra. La sostanza è comunque rimasta invariata: l’assalto alla spesa pubblica in assenza di una vera attenzione alle conseguenze sulla dimensione del debito e sulla crescita economica. Fatti evidentissimi oggi perché, unici in Europa, abbiamo un debito che si avvicina al 150% del Pil, che si somma a una mancanza di crescita che dura almeno dalla fine degli anni Novanta. È di questi giorni la notizia che l’Italia ha i salari più bassi d’Europa.
Stupisce quindi che a sinistra ci si lamenti molto dell’aumento delle disuguaglianze e si imputi questo all’ “ordoliberismo” solo perché, presumo, si sono fatte alcune liberalizzazioni (a tutto vantaggio dei consumatori), ma non si dica una parola sul blocco dell’economia che è dovuta (statistiche alla mano) alla quasi assenza sin dagli anni Novanta dei necessari investimenti. Quelli pubblici sono crollati (portando anche al blocco del turnover di personale in molti settori della P. A.) per l’enorme debito statale. L’assenza di investimenti privati è quasi certamente dovuta al “nanismo” che caratterizza il grosso delle imprese (tra quelle private le grandi multinazionali non arrivano a raggiungere le dita di una mano). Nonostante questo vincolo forte, si è cercato di continuare con il consociativismo spartitorio (spartitorio perché riguarda tutte le forse politiche).
Insomma, il sistema politico è passato dal “pluralismo polarizzato” (del dopoguerra fino ai primi Novanta) all’attuale pluralismo populista. Il PCI, pur non essendo più percepito dal grosso degli elettori come partito antisistema, si manteneva tuttavia ambiguo sul terreno sostanziale (si veda G. Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, Sugarco, 1982, specie pp. 199-209). Diversamente da FdI, oggi gli eredi del PCI-Sinistra cattolica non possono certo essere sospettati di mantenere una posizione ambigua rispetto alla democrazia. E tuttavia un’ambiguità di fondo permane, e riguarda quella che potremmo chiamare assenza di un diffuso liberalismo di sinistra, ovvero di un autentico riformismo, pragmatico e rivolto a ridurre le disuguaglianze più marcate, ma abbandonando del tutto l’anticapitalismo tipico delle due tradizioni di provenienza. Purtroppo è come se continuasse quel “basso continuo” di cui parlava il Bellah, ma che ormai ha preso la forma materiale di un “consociativismo spartitorio” intoccabile che rincorre il populismo, pur in presenza di risorse sempre più scarse, senza che quelli che gridano contro le disuguaglianze si preoccupino del blocco più che ventennale dell’economia che proprio questo “consociativismo all’italiana” ha molto contribuito a creare.
Va precisato che il “consociativismo” dell’Europa del nord è una forma di contrattazione tra tutte le parti sociali, e che il governo in carica si impegna a realizzare indipendentemente dalla coalizione che rappresenta. Si tratta di un modo per redistribuire socialmente la crescita del Pil così ottenuta. Un modo per dare soluzione ai conflitti e che probabilmente risale a come erano state fermate le guerre di religione che avevano devastato l’Europa del nord, soprattutto a partire dalla pace di Westfalia del 1643-44 e dai trattati che ne seguirono, e che furono efficaci per alcuni territori tedeschi e olandesi ma in seguito anche in Svizzera, che infatti è una dei paesi padri del consociativismo (D. Schmidtz e J. Brennan, Breve storia della libertà, IBLLibri, 2013, specie pp. 119-143).
Poiché da noi un’analoga mancanza di liberalismo si ha nel versante della destra, la situazione può assume i caratteri di una spirale distruttiva. Riallacciandosi a quanto abbiamo detto sui meccanismi delle decisioni politiche (vedi il Quaderno sui populismi su citato), possiamo concludere che il sistema politico italiano, anche in assenza di partiti antisistema, ha la seguente caratteristica: la netta prevalenza della decisione di non-decidere, perché autentiche decisioni responsabili comporterebbero di smetterla con il consociativismo spartitorio per concentrare tutte le risorse sulla ripresa dello sviluppo. Cosa che, a sua volta, significherebbe tagliare i ponti con i vari “gruppi di pressione” che beneficiano di una tale spartizione a pioggia, quale che sia le bandiere che di volta in volta vengano sventolate: il “Reddito di cittadinanza”, “quota 103”, “prima gli italiani”, “contro il liberismo” (che sta bene tanto a destra quanto a sinistra, basta vedere come stanno andando a finire le vicende di ex Alitalia, ex Ilva, la rete TIM e, buon ultima, la raffineria Isab di Priolo di cui non parla nessuno). A cui si è aggiunta una burocrazia di vertice sempre più costituita da politici incompetenti e che la bassa durata dei governi rende sempre più inefficiente (si veda F. Giavazzi, Le scelte sul Pnrr. Il difficile equilibrio tra poteri, Corriere della Sera, 11/5/2023). Non a caso anche il governo Meloni reclama lo “spoils system”, confermando che questo è ormai il modo in cui si fa carriera politica (e si alimenta qualche clientela o gruppo di pressione).
Rispetto alle policies una delle caratteristiche del populismo di destra è infatti favorire la sopravvivenza dei ceti tradizionali (in questo riprendendo una radicata tradizione cattolica). È provato che anche oggi la più alta evasione fiscale si ha nei settori dove v’è una vasta economia sommersa, cioè nel commercio, nella ristorazione, negli alloggi (a volte persino abusivi), nei servizi professionali, nelle costruzioni. È noto che questo va a scapito della competitività e dello sviluppo, atteggiamento ancora più irresponsabile in un’epoca di globalizzazione (soprattutto dell’economia). Nessuno può oggi sopravvivere in “autarchia”. Si tratta di uno dei paradossi del populismo “sovranista”. Ma su Giorgia c’è un handicap che non si trova neppure nel populismo della Lega, ossia l’ombra di Benito che pesa come un gigantesco macigno. Com’è accaduto per gli ex-PCI ed ex cattolici di sinistra (confluiti nel PD), anche per gli eredi del fascismo non aver fatto veramente i conti con il proprio disastroso passato totalitario costituisce un vero handicap, soprattutto culturale e che prima o poi verrà pagato.
Full Professor presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dell’Economia. Ha insegnato presso l’Università L. Bocconi di Milano, l’Università Statale di Milano, l’Università Statale di Pavia. Ha studiato presso il Dipartimento di Sociologia della Temple University di Filadelfia (USA) con una borsa NATO. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche.