di Enrico Morando*
Vorrei provare a sostenere che – per noi federalisti – è aperto un problema di reimpostazione della nostra visione sul processo di costruzione di un più avanzato livello del processo di integrazione. Un problema, in sostanza, che ha a che fare con la cultura politica non degli euroscettici e dei nemici dell’integrazione (anche di quella già realizzata), ma dei più convinti sostenitori della prospettiva degli “Stati Uniti d’Europa”.
I capisaldi del federalismo
Questi ultimi – tra i quali mi annovero – sostengono da sempre una posizione fondata su tre capisaldi:
- Esiste la sede della sovranità, cioè dell’effettivo potere della Politica di influire direttamente ed effettivamente sulla realtà economica, sociale, civile e culturale. Questa sede della sovranità è lo Stato Nazionale.
- Per un complesso di ragioni e per finalità di interesse generale, è bene che quote di questa sovranità vengono “cedute” o “trasferite” dallo Stato nazionale ad organismi comunitari, in un processo che prende il carattere di un gioco a somma zero: tanta è la sovranità sottratta allo Stato nazionale, quanta è la sovranità “acquisita” dagli organismi comunitari.
- Gli organismi comunitari che “ricevono” queste quote di sovranità debbono essere democratici, almeno quanto lo sono le istituzioni nazionali che le “cedono”. In assenza di questo carattere delle istituzioni comunitarie, infatti, il processo si configurerebbe come capace di garantire un di più di integrazione, pagato con una forte caduta di democrazia.
Questo approccio non funziona più
Cos’è che non “funziona” più in questo approccio al tema della integrazione? La risposta prevalente (ne abbiamo sentito un’eco anche stamane) è la seguente: il processo si è inceppato perché i singoli stati nazionali non vogliono cedere altra sovranità (anzi, tendono ad operare per rinazionalizzare le quote già cedute), così favorendo – nell’ambito di un processo decisionale sempre più intergovernativo e sempre meno comunitario – il prevalere degli interessi dei Paesi più forti economicamente (Germania) o politicamente (Francia).
È una risposta che coglie una parte della realtà, ma non l’essenziale: l’approccio tradizionale dei federalisti non “funziona” perché sta progressivamente venendo meno il suo indispensabile presupposto: sulle scelte che contano davvero, per la vita dei cittadini, la sovranità non “abita” più dove ha sempre abitato, negli Stati nazionali.
Quando la rivoluzione digitale crea le condizioni per la globalizzazione, la sovranità “fuoriesce” progressivamente dai confini degli Stati nazione, in parte per insediarsi presso organismi comunitari (la politica monetaria, trasferitasi alla BCE); un’altra (più grande) parte per trasferirsi verso sedi formali ed informali di governo globale (il WTO; le riunioni del G20); un’altra (ancora più grande) parte per essere riconsegnata agli instabili equilibri “westfaliani” dei rapporti di forza tra i più grandi protagonisti globali (vecchi – USA, Russia – o nuovi – Cina, India, Brasile – che siano).
Ma c’è di più e di peggio: data l’incapacità di costruire sedi del “governo globale”, la gran parte della sovranità tende ad “evaporare”, disperdendosi nel disordine globale della competizione di tutti contro tutti.
Immigrazione, politica monetaria, occupazione: cosa cambia
Pensate all’ultima campagna elettorale in Italia: essa si è molto concentrata sul tema dell’immigrazione. Cioè, su di uno degli effetti più importanti della globalizzazione. Un fenomeno che – nella parte più debole della popolazione italiana – crea paura. È avvertito come una minaccia. Diffonde insicurezza. I nazionalisti di tutti i colori hanno preso impegni al “governo” di questo fenomeno. Un impegno che anche noi riformisti dobbiamo considerare prioritario. Ma in che senso lo Stato nazionale italiano è in grado di “governare” l’immigrazione”? Come può farlo, se non è in grado di presidiare i proprio confini – la premessa della “sovranità” –, poiché essi o non ci sono più, o – se ci sono – si identificano con quelli dell’Unione? E, per questo, dall’Unione come tale devono essere presidiati e gestiti?
In questa materia, non c’è da “cedere” sovranità, c’è da costruire il sovrano europeo. Perché la dimensione europea è quella minima per esprimere un governo efficace del fenomeno.
Allo stesso modo, per la politica economica e monetaria. Con l’Euro, la politica monetaria è stata affidata all’unico organismo effettivamente “federale” che esista. Una scelta di indubbio successo, visto che la nostra moneta comune e la BCE si sono rapidamente affermati come protagonisti alla dimensione globale.
Ma proprio questo successo ci segnala i limiti drammatici del processo di integrazione: la politica monetaria è una. Ma le politiche fiscali sono molte; e assai debolmente coordinate. È così potuto accadere che la politica monetaria assumesse un’intonazione ultraespansiva, mentre le politiche fiscali dei singoli stati permanevano neutrali o addirittura restrittive. Il risultato? Un deficit di “sovranità” nel governo della economia, che ha convinto molti cittadini che l’Europa non fosse parte della soluzione, ma la principale fonte della crisi e delle difficoltà economiche in cui hanno continuato a permanere – in una sorta di “personale” recessione –, anche quando la ripresa economica è iniziata. Anche in questo caso, c’è poco da “cedere”. C’è da costruire nuova sovranità, alla dimensione europea.
Un ultimo esempio: la disoccupazione e le sofferenze sociali provocate – nel mercato unico – da shock asimmetrici che colpiscano con particolare e imprevedibile violenza singoli stati membri o porzioni del loro territorio. Rinunciamo al mercato unico – cioè alla principale fonte della nostra prosperità – per evitare gli shock asimmetrici, o creiamo le condizioni per governare i loro effetti socialmente più devastanti? C’è chi propone la prima soluzione: chiudiamoci. C’è da sperare che sappia che così, un Paese come il nostro, ucciderebbe la gallina dalla uova d’oro. Ma non basta respingere le spinte protezionistiche e alla chiusura dei mercati: se si vogliono prevenire (e mitigare) le sofferenze sociali, bisogna costruire il “sovrano” europeo che sia in grado di ricostruire equilibrio là dove la “distruzione creatrice” concentra i suoi effetti più negativi.
Serve una svolta in Europa
Potrei proseguire, parlando delle politiche di infrastrutturazione materiale e immateriale… ma spero di aver dato l’idea.
Se il problema è costruire il nuovo sovrano europeo, allora è indispensabile che l’Italia si unisca alla Francia di Macron per costruire, con la Germania della rinnovata coalizione CDU-SPD, le convergenze necessarie per dare corpo ad una svolta.
Avete visto cosa sta accadendo. C’è una sorta di tripartizione delle posizioni: da un lato il gruppo di Visegad – contrario ad ogni progresso nell’integrazione. Dall’altro un gruppo di Paesi del Nord – tradizionalmente parte dell’area di influenza tedesca – che prendono le distanze dall’orientamento del nuovo programma di Governo espresso nell’accordo tra CDU e SPD, e si schierano a difesa dello status quo. E, infine, Macron, che rischia l’isolamento, dopo aver scommesso tutto sulla ripartenza del processo di integrazione in tema di difesa (di politica estera), di politiche fiscali, di governo dell’immigrazione.
La posizione italiana è dunque essenziale per costruire un nuovo equilibrio, a favore dell’integrazione. Ma il voto, anche per limiti ed errori di noi riformisti europeisti, è andato in altra direzione. C’è molto da lavorare, anche per il “Laboratorio” che nasce questa mattina.
*Intervento al convegno Eurispes (Roma – 11 maggio 2018)
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)