di Alberto De Bernardi
Come era prevedibile la proposta di riforma dello statuto del Pd costituisce la cartina di tornasole delle intenzioni del nuovo gruppo dirigente unitario che regge il partito dopo l’uscita della minoranza renziana.
E’ l’esito di un lungo itinerario cominciato dopo il congresso e i continui riposizionamenti e rimescolamenti delle correnti che con tutta evidenza erano costruzioni provvisorie, di mero posizionamento di piccole o grandi oligarchie, in vista di una ricomposizione unitaria basata sulla condivisione di un assunto di fondo: cancellare/diluire fino a farlo scomparire il Pd nato al Lingotto fondato sulla vocazione maggioritaria e l’ambizione di governare il paese attorno a un progetto di modernizzazione riformista, come condizione per dare vita al nuovo csx demo-populista.
L’asse demopopulista
Il nuovo Pd di Zingaretti, Franceschini e Base riformista è infatti un partito che si riconosce nell’assunto bettiniano che il vecchio Pd veltroniano, rideclinato da Renzi segretario e premier, era ormai diventato un partito senza popolo, elitario e arcigno che difficilmente avrebbe potuto riacquistare il consenso del suo “popolo”, se non attraverso una radicale fuoriuscita dal quel progetto.
In due direzioni. La prima è una riconfigurazione ideale che faccia accogliere nella sua costituzione “materiale” il populismo come interlocutore fondamentale – perché “li c’è il popolo di sinistra” – di una nuova alleanza strategica che chiamerei di “rigenerazione popolare”: non una alleanza di governo sul modello di una “grossa coalizione” tattica e provvisoria, come è, o era, il governo Conte II, ma una alleanza fondata su una comune idea di paese, sulla condivisione di una tavola di valori ritenuti “di sinistra” nei quali si combinano assistenzialismo, dirigismo statalista, giustizialismo, antiglobalismo. Si delinea il progetto di costruire un nuovo campo politico demo-populista – una sintesi, per intenderci, tra Provenzano e Bonafede – fondato sul debito pubblico come grande strumento non tanto per combattere le diseguaglianze, quanto piuttosto per sostenere le domande di protezione delle grandi corporazioni – pensionati, impiegati pubblici, lavoratori dipendenti sindacalizzati, ecc. – e su un substrato ideologico illiberale, che demonizza il merito, la globalizzazione, l’eguaglianza delle opportunità e attribuisce al potere giudiziario il controllo dell’etica pubblica.
Il nuovo partito? È vecchio
La seconda riguarda il partito perché l’accantonamento della vocazione maggioritaria implicita in questo progetto comporta superare il partito che quella vocazione incarnava. La riforma proposta da Martina viene presentata come uno strumento per incrementare il radicamento del partito nella società, che non è stato raggiunto non perché, come si sostiene, l’unificazione di segretario e premier ha impedito che una figura rappresentativa si dedicasse all’organizzazione, quanto piuttosto per l’autoreferenzialità correntizia su cui si è fondato il Pd fin dalle sue origini.
In effetti è una trasformazione radicale che riporta il Pd a un partito oligarchico nel quale le primarie per il segretario perdono il loro significato autentico di strumento di contendibilità effettiva della leadership, per diventare un rituale confermativo di equilibri raggiunti in precedenza. Infatti senza l’unificazione delle due cariche perché mai milioni di elettori dovrebbero essere interessati a mobilitarsi per votare il segretario di un partito a cui non sono iscritti e non intendono iscriversi?
Infatti non lo faranno e si tornerà a un partito di iscritti che sceglieranno il segretario con una procedura più democratica della nomina dei capicorrente ratificata nei congressi, ma interna a una concezione autoreferenziale del partito.
A maggior ragione perché il M5S non ha intenzione di partecipare a nessuna primaria di coalizione: si creerebbe cosi l’assurdo che il Pd fa le primarie di coalizione e i 5S scelgono lo stesso candidato con la piattaforma Rousseau. Un pastrocchio che però interessa quei cesellatori di norme inutili che nel Pd stanno già discutendo con passione di dettagli da legulei: annaffiano con dedizione singoli alberelli, mentre qualcuno ha appiccato il fuoco alla foresta.
Senza vocazione maggioritaria espressa dall’unificazione delle due cariche le primarie non servono; mantenerle ha una funzione meramente simbolica e retorica per eleggere una carica non incisiva sul sistema politico: solo le cariche elettive chiamano le primarie; quelle di partito no, perché non hanno bisogno di quel surplus di legittimazione popolare che invece potenzia le cariche pubbliche.
Il ritorno delle tesi
Ma la riedizione di una partito oligarchico si manifesta anche nella confusa proposta di fare i congressi sulla base di tesi elaborate non si capisce da chi prima delle primarie, Si tratta, se ho capito bene, di elaborare delle tesi unitarie dopo un dibattito interno, sui cui organizzare la seconda fase congressuale che si concluderà con le primarie. Ma se le tesi sono unitarie su cosa si fanno le primarie? Ogni candidato presenterà solo degli emendamenti alla “linea” unitaria? Se fosse così sarebbe ridicolo – le primarie dell’emendamento -; ma se si suppone che si presenteranno tesi contrapposte non si capisce cosa abbiano di diverso dai documenti presentati dai candidati nei congressi del passato: tesi anonime contrapposte che si concludono con una lista di proponenti tra cui verrà scelto il candidato delle primarie? Lo chiarirà si spera la commissione, ma non appassiona nessuno al di fuori dei gruppi dirigenti interessati alla loro riproduzione e difesa.
Infatti “tesi”, già nella parola stessa, rimanda a un partito novecentesco, tenuto insieme non da una tavola di valori su cui si contendono idee e progetti diversi, ma dalla pretesa di una “sintesi” ideologico-progettuale, unitaria, frutto della mediazione “precongressuale” tra i capicorrente, alternativa a un partito aperto basato su una cooperazione competitiva tra programmi diversi, che presuppone solo regole di collaborazione virtuosa tra maggioranza e minoranza entrambe provvisorie, che le legittimi entrambe. Poichè il partito del Lingotto non ha mai visto la luce, solo perchè nessuno lo ha voluto davvero realizzare, invece di realizzarlo finalmente, si pensa di fare un partito nuovo mettendo un po’ di digitale intorno a partito vecchio che è già fallito in tutta Europa da almeno un ventennio.
Un partito senza “io” e senza “noi”
Questo partito non può che avere una vocazione minoritaria, che si riduce a portare il suo contributo elettorale a un “campo largo” costruito insieme ai populisti, pensato come soluzione di lunga durata alla crisi del riformismo modernizzatore del Pd di Renzi. Su questa “rifondazione” del passato si è unificato il Pd senza nessun congresso che la legittimi per il progressivo convergere di tutte le correnti su questa nuova visione politica; correnti che non hanno leader, come lo sono stati Veltroni, Bersani e Renzi, ma hanno solo capi e capetti: il noi contrapposto all’io è questa unità dei capicorrente che va bene a tutti perché nessuno ha la forza di delineare una alternativa, nessuno è davvero “io”: chi l’aveva se ne è andato; chi resta come Orfini rischia di essere una vox clamans in deserto, a cui va tutta la mia solidarietà ma destinata a una marginalità crescente.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019