di Antonio Preiti
La sinistra, non solo quella italiana, beninteso, dovrebbe andare in Giappone. Non è un esilio, e neppure un modello politico da evocare, ma per imparare un’arte, un’arte che è anche una metafora. E’ un’arte che non c’è altrove. O meglio, è un’arte che affronta un problema in maniera opposta rispetto al resto del mondo. E’ l’arte di riparare i vasi, un’arte umile, di grande raffinatezza e efficacia, oltre a produrre capolavori estetici.
L’arte del kintsugi
Da noi che succede? Quando si rompe un vaso cerchiamo di riunire i pezzi e, se siamo fortunati, li rimettiamo al loro posto, cercando di tenerli insieme con un collante che sia invisibile. Insomma, cerchiamo di nascondere quel che si è rotto. Meno la riparazione si vede, meglio è. Più il vaso è identico a prima, meglio è. Vorremmo riportare indietro l’orologio, in sostanza.
L’arte giapponese si chiama kintsugi, che letteralmente è parola composta da ‘kin’ che significa oro e ‘tsugi’, che sta per riparare. Insomma, riparare con l’oro. L’idea giapponese qual è? Se hai un vaso rotto, la riparazione dev’essere più preziosa dell’oggetto riparato. Insomma, devi raggiungere un equilibrio superiore al precedente. Allora la riparazione va fatta con l’oro, che è la materia più preziosa che esista. La riparazione non nasconde la crepa, ma la esalta. La riparazione aggiunge bellezza a ciò che è riparato.
Inutile dire quante e quali metafore si racchiudano in questa strategia: per riparare quel che si rompe bisogna salire di un grado (in bellezza, in preziosità, in significato); le ferite vanno curate esaltandone l’opportunità che danno di costruire qualcosa di più solido e di più significativo; le crepe non vanno nascoste, ma rese più visibili, così il vaso diventa unico. Nessun altro vaso, anche identico, avrà mai le stesse nervature delle riparazioni.
In psicologia la metafora si presta a impieghi formidabili, anche nella psicologia dei movimenti collettivi. E’ una tendenza naturale, istintiva, comprensibile che quando qualcosa si rompe, si tenda a ritornare allo status precedente. Questo accade per ogni vicenda, materiale o immateriale che sia. E’ umano, troppo umano.
Il vaso della sinistra è stato rotto dagli elettori
Il vaso della sinistra è stato rotto dagli elettori. L’istinto immediato sarebbe quello di riprendere i cocci e di ripararlo, anzi di rispristinarlo con colla invisibile, riportandolo a un qualche punto del passato che si ritiene soddisfacente. Talvolta questo punto è inteso così lontano, ma così lontano, che forse… non è mai esistito. Se fosse possibile, allora più che il Giappone, servirebbe il sistema operativo della Apple. La sua Time machine, che riporta il computer a qualunque ora desiderata del passato. L’impressione però è che alla sinistra non serva una Time machine, ma l’arte giapponese di riparare i vasi.
Se è così, conviene allora capire dove siano le aree di rottura, cioè su che cosa e su quali argomenti o issue, gli elettori hanno crepato il vaso e dove trovare l’oro della rinascita.
Chi ha potuto vedere giorno per giorno, anzi attimo per attimo, le dinamiche dei social media, avrà chiarissime dove si sono aperte le faglie tra la sinistra e l’elettorato. La prima e la più grande è quella dell’immigrazione. Qui, su questo argomento, fra sinistra e elettori, quanto meno, non c’è stata perfetta comprensione.
La gestione dell’mmigrazione
Schematizzando, la sinistra è vista come sostenitrice dell’immigrazione di massa che gli italiani non vogliono. (E’ inutile fare discussioni, almeno qui, se i “dati reali” sono diversi dalla percezione. E’ argomento importante, naturalmente, ma ci distoglierebbe dal filo del ragionamento. E poi, “esse est percipi”, dice l’antica saggezza, non giapponese). Non risulta però nessuna affermazione, o statement o anche solo opinione, secondo cui la sinistra sarebbe favorevole o addirittura incentiverebbe, ad esempio, una “invasione” islamica o cose del genere. Certo è favorevole a che ognuno possa seguire il suo culto religioso, ma da qui al sostegno all’islamizzazione dell’Europa, all’avverarsi dell’Eurabia di Oriana Fallaci, c’è un abisso. Eppure.
Eppure questa idea si è radicata tra la gente. Si è radicata l’idea che la sinistra, per qualche ragione inusitata, sia diventata quasi anti-occidentale. E qui siamo al paradosso: i movimenti populisti ispirati a Putin, a Trump, ai movimenti anti-tolleranza in ogni parte del mondo accusano la sinistra allo stesso tempo di essere asservita alla globalizzazione, cioè al dominio dei mercati e dei valori liberali, e di indebolire quegli stessi valori attraverso l’islamizzazione dell’Europa. Il vaso non poteva reggere. Ma forse il concetto chiave è un derivato da una qualche idea di cristianità tradizionalista. Per i movimenti populisti la difesa della cristianità è un tutt’uno con la difesa dall’islam. Per questa ragione i valori tradizionali sono stati usati contro la sinistra in quanto liberal, più che liberista, insomma colpevole di essere più attenta ai diritti civili che ai diritti sociali. Matassa complicata da districare, e tuttavia lì il vaso si è rotto.
La rabbia di massa si è sviluppata su due idee diverse di paese. Per i populisti l’Italia non è il grande paese del club dei potenti del mondo che si può permettere di accogliere alcune migliaia di immigrati, per altro assistiti in circostanze eccezionali, ma un paese in difficoltà, anzi in crisi, spremuto da un lato dall’innovazione tecnologica che annulla lavori tradizionali e ne fornisce di nuovi e mal pagati e dall’altro dalla tassazione opprimente. Non importa qui stabilire quale delle due concezioni sia vera, è importante capire che la lacerazione nasce da questa opposizione irriducibile e non conciliabile.
Dov’è l’oro che ripari questa frattura? Sicuramente non è l’ideologia, cioè il porre le questioni in maniera assoluta e astratta, ma nelle politiche. La circostanza che forse ha creato l’insofferenza maggiore della popolazione, non è tanto l’immigrazione in sé, o i suoi numeri oggi ampiamente ridotti (siamo un paese che vive da sempre nella dialettica emigrazione/immigrazione), ma la sua gestione. Il fatto visivo, evidente, di trovare gruppi di immigrati nelle stazioni, nei parchi, nei luoghi di maggiore concentrazione urbana ha ingenerato l’idea che non ci fosse un governo del fenomeno. Il fatto che lo status di profughi in attesa non permettesse loro né di lavorare, né di assumere un qualche compito sociale ha aggiunto elementi di percezione fuorviante del fenomeno. Insomma, l’oro della riparazione non sta (solo) nell’accusa agli altri di razzismo (i razzisti esistono, ma sono un’assoluta minoranza, per fortuna) ma in un assessment nuovo di tutta la materia. Visto che non è possibile né “accoglierli tutti” , né “non accogliere nessuno”, allora si tratta di trovare un punto, un senso e una strategia in un qualche punto intermedio. Separare soccorso da accoglienza, ad esempio (per tutti? per alcuni? per chi?); fare politiche attive dell’immigrazione (sì proprio così) selezionando nei paesi d’origine, avendo il coraggio di dire che la selezione si può fare (la fanno gli Stati Uniti; la fa l’Australia; insomma tutti i paesi hanno forme di selezione); europeizzare l’accoglienza (alleandosi con gli accoglienti, se ci sono ancora, e non con i respingenti). L’oro sta in una visione della materia che, per quanto difficile e inedita, non aspetta altro che una strategia di cui ci si possa fidare, ottimista, inclusiva e rassicurante.
Fronteggiare la micro-criminalità
L’altra frattura fondamentale è sulla micro-criminalità. Nel passato a sinistra si era affermata un’idea particolare, figlia dell’ideologia più che della realtà. Si diceva: lotta alla grande criminalità, alle mafie, avendo una certa qual tolleranza verso il piccolo crimine. Non era detto a chiare lettere, ma il meta-messaggio era molto chiaro: la grande criminalità è figlia dell’avidità del potere (assonanza capitalistica), la piccola criminalità del bisogno. Nessuno l’ha mai detta così, ma il senso era esattamente questo. Il primo a cambiare registro è stato Tony Blair (e non a caso questo cambiamento ha fatto parte del “compact” che gli ha fatto vincere tre elezioni consecutive), quando ha sostenuto che c’era bisogno di essere duri con le cause del crimine, e anche duri con il crimine (tough on crime, tough on the causes of crime).
Per la gente comune, ma oramai per tutti, la micro-criminalità è qualcosa con cui fare i conti ogni giorno e in certe situazioni, a ogni istante. La certezza della difficoltà a punire effettivamente i colpevoli di questi reati, i numerosi esempi di mancata detenzione di autori ripetuti, anzi ossessivi, di reati di furto o peggio, hanno ingenerato l’idea che “i politici” non se ne occupino, perché il problema non riguarda loro. Siamo ancora nel dominio della percezione. Dire che i reati sono diminuiti non serve o non basta: se il fenomeno è avvertito come allarmante, non c’è statistica che tenga. Le statistiche non danno emozione.
Dov’è l’oro di questa riparazione? Magari cominciando a eliminare questa distinzione culturale tra grande e piccola criminalità: anche perché la grande si esprime spesso attraverso la piccola e perciò più che contrapposizione, c’è una continuità. Forse l’oro sta nella concezione di una nuova distinzione, che conservi e sviluppi lo spirito civile delle leggi e il senso correttivo della detenzione, quella tra reati conseguenza di una concezione “professionale” del crimine, dai reati che sono dovuti a circostanze in cui non è esplicito il suo intendimento “professionale”.
Naturalmente la distinzione non è molto facile, però è possibile. Bill Clinton, democratico (non Trump) nel 1994 emanò una legge in cui colpiva pesantemente la recidiva -diremmo noi- i “repeat offenders” -ha detto lui-. In sostanza, il “The Violent Crime Control and Law Enforcement Act”, che faceva fronte a un incremento della criminalità di strada (e Clinton da buon presidente si confrontava con i fenomeni, oltre che con l’ideologia), prevedeva misure pesantissime, mai viste, per coloro i quali si dimostravano colpevoli di aver commesso per tre volte lo stesso reato. Il punto su cui Clinton aveva puntato era che il crimine aveva distrutto proprio le comunità dove i responsabili dei crimini vivevano, com’è ovvio che accada e come ci si dimentica spesso. Detto con le parole di oggi: il crimine colpisce per primo non i centri storici, che pure colpisce, ma devasta proprio le periferie. Le prime vittime sono proprio le persone più umili e più deboli che vi vivono accanto. E’ una considerazione che non si ha spesso il coraggio di fare. L’oro non è nella “carità di patria” per cui si assolve e si riduce di peso e di senso tutto ciò che ci sta lontano, ma nella “severità di patria”, perché è della patria delle periferie che si parla. Quelle sono la vera “patria”, per chi ci vive.
La distanza del linguaggio
La terza e ultima faglia è quella del linguaggio. L’astrattezza, gli –ismi, la retorica facile, la ricerca ossessiva della distinzione attraverso la vivisezione delle parole piuttosto che l’analisi della realtà, rende abbastanza incomprensibili tanti discorsi. Ma il distacco non sta (solo) in questo, ma in un senso di esame permanente per essere/definirsi/essere riconosciuti di sinistra. Per avere legittimità si devono condividere contemporaneamente e ciascuno, uno per uno, tutti gli statement sedimentati della sinistra. E’ come avere un sistema con dieci password, in cui non basta conoscerne una su dieci per accedervi, ma solo e sempre dieci su dieci.
I movimenti di massa oggi sono ambigui (diciamo liquidi, per essere più eleganti), non sono l’inveramento di una ideologia, ma si raccolgono, come onde ininterrotte su questo o quel sentire comune. Sentire comune che cambia, che contiene al suo interno una varietà di radici e di tribù d’appartenenza. I movimenti di oggi sono emotivi e tribali (“moral tribes”): nessuno vuole farsi indicare cosa pensare da nessun altro. Ognuno interpreta la realtà secondo paraocchi, pregiudizi e partito preso (inclusi gli intellettuali). Certo non è un bene, ma non si è mai visto qualcuno che sia in grado di soppesare, analizzare e giudicare ogni aspetto della vita con neutralità, competenza e giudizio. Leggere Kahneman, per favore.
Dov’è l’oro in questo caso? Un atto di umiltà: giudicare di meno, capire di più. Accettare che il senso comune ha un senso. Come nella battuta di quel film in cui il protagonista affermava che quanto detto era un luogo comune. E la risposta era definitiva: “mi dici come ha fatto a diventare un luogo comune?” Le opinioni (tranne proprio alcune, ma solo alcune) hanno tutte la dignità di essere discusse. Chi non è sintonizzato su Berkeley non necessariamente è un idiota. Forse l’empatia è migliore della simpatia. Forse la compassione è migliore della commiserazione. Forse l’intelligenza, la sensibilità, l’umanità si distribuisco random rispetto allo status socio-economico delle persone. Forse. Forse chi ha letto i padri del pensiero democratico americano (o almeno visto L’Attimo Fuggente) sa che in ogni uomo, in ogni persona, c’è una potenzialità enorme, inespressa e infinita. Whitman lo diceva pensando non ai poeti, ma all’uomo comune. Ecco l’oro.
Il vaso riparato della sinistra
Sono queste le tre fratture fondamentali e altre ce ne sono ancora, naturalmente. Ma sono quelle che probabilmente hanno determinato più di altre l’affermazione dei populisti. Cosa potrebbe diventare allora il nuovo vaso della sinistra italiana con queste e altre nuove nervature d’oro? Sarebbe unico. Unico persino rispetto alle altre esperienze progressiste e socialdemocratiche, oggi largamente in crisi. Avrebbe le nervature adatte a una società che vuole mantenere, anzi sviluppare, nelle sue connotazioni liberali, ma essere popolare; attribuire valore alla scienza, ma dare spazio a chi sostiene che la scienza non ha in sé il libero arbitrio: perciò non tutto ciò che è scientificamente possibile è anche eticamente condivisibile; che si può essere di sinistra in tanti modi, non in un solo, che ogni persona è un vaso rotto, ma ha nervature d’oro, ed è più prezioso dei vasi perfetti, ma vuoti.
Economista, docente all’Università di Firenze. È cresciuto al Censis, ha insegnato alla Luiss Management, Università di Bolzano, ha diretto l’Agenzia del turismo di Firenze, ha lavorato per Banca Imi e altre imprese. Ha ricoperto la carica di Consigliere d’Amministrazione di Enit e Vice Presidente di ETC (European Travel Commission). Collaboratore del Corriere della Sera. Svolge professionalmente studi e ricerche per Sociometrica, di cui è Direttore. Twitter @apreiti web www.antoniopreiti.it