di Lia Quartapelle, Filippo Barberis, Mario Rodriguez
La grave perdita di consenso elettorale del PD alle elezioni del 2018 può essere compresa solo considerandola nel contesto più ampio delle vicende economiche e sociali del continente europeo e della sinistra europea.
Il peso della crisi economica
Come era prevedibile la crisi economica che passerà alla storia come la “grande recessione” non poteva non avere ripercussioni pesanti sul rapporto tra cittadini e istituzioni nazionali ed europee. Evidenza di questo distacco si ritrova nella nascita di molti movimenti anti establishment e sulla costante perdita di consenso elettorale dei partiti di governo verificatasi negli ultimi due decenni.
Sono apparse del tutto insufficienti visioni ingenue della globalizzazione che la associavano di per sé alla soluzione di conflitti e alla diminuzione delle diseguaglianze.
È stata confermata la natura conflittuale del sistema capitalistico anche di quello caratterizzato dalla nascita e dall’affermazione di grandi protagonisti del settore digitale. La “quarta via” del capitalismo digitale non sarà meno drammatica, conflittuale e dolorosa delle precedenti. E questo conferma la necessità di una cultura politica attenta a fronteggiare questi fenomeni, una cultura politica capace di accompagnare tra le sfide della contemporaneità il lascito valoriale del movimento dei lavoratori e della storia della sinistra proponendo visioni forti e capaci di mobilitare le coscienze.
La crisi si è abbattuta sull’economia europea mentre erano già in atto, tra gli altri, fenomeni di natura non ciclica ma strutturali:
- il difficile adeguamento delle diverse economie nazionali dell’area euro alle intese di Maastricht e l’effetto negativo sulla ripresa e la dinamicità di diverse economie europee che la rigida interpretazione di questi parametri ha comportato;
- un’evidente inadeguatezza istituzionale dell’Unione Europea che ha impedito l’assunzione di decisioni governative rafforzate da una maggiore legittimazione democratica e capaci di far fronte alle sfide sociali ed economiche della dimensione globale a fronte di un indebolimento del ruolo degli stati nazionali;
- l’avanzamento di processi di mondializzazione dei mercati e di finanziarizzazione della economia;
- il fenomeno della crescita dei flussi migratori dall’Africa e le tragiche guerre in Siria e in Iraq.
La cultura e l’azione politica della sinistra europea non hanno saputo tener testa quindi né alla natura inedita della crisi economica né a quella della costruzione di istituzioni efficaci a livello europeo. Ma proprio le istituzioni a livello europeo sono apparse, sempre più, le uniche a poter tener testa alla natura e alla forza dei nuovi soggetti del capitalismo digitale e della finanza nonché a fenomeni di natura intercontinentale come le migrazioni. Così le attenzioni, le speranze, le rabbie e le paure degli scontenti dei minacciati e dei colpiti dalla crisi si siano rivolte ad altri soggetti, sia quelli nuovi sia quelli tradizionali della destra conservatrice anti europea e nazionalista.
Troppo spesso la sinistra è apparsa più interessata ad aggiustare cose vecchie invece di proporne nuove, come l’inconsistente dibattito sull’essere davvero di sinistra invece che affrontare i tanti punti critici e i conflitti generati dalla modernità.
La vicenda del Pd e la stagione di Renzi
La vicenda del PD e la stagione contrassegnata dall’affermazione di Matteo Renzi
Il PD, soprattutto dopo la sconfitta subita con il referendum costituzionale del 2016, tutto concentrato sulla valorizzazione dell’attività di governo è sembrato aver smarrito “la ragione, la missione e il senso” di “fare una Italia nuova”, come disse Veltroni battezzando il nuovo soggetto politico al Lingotto nel 2007: la modernizzazione del Paese, lo stare al passo con i cambiamenti della contemporaneità, la volontà di recuperare il ritardo che l’Italia ha accumulato per le sue stratificazioni di norme, per i troppi potentati locali, l’amministrazione pubblica in gran parte inefficiente, i tanti livelli amministrativi in conflitto tra loro.
L’affermazione elettorale del PD alle elezioni europee del 2014 e le prime azioni del governo Renzi avevano generato aspettative contrastanti. Se da un lato avevano fatto crescere le aspettative positive verso la possibilità di avviare quella modernizzazione attesa da decenni e portare il paese fuori dalla crisi – in certo modo persino esagerate da qualche sopravvalutazione a da un eccesso di annunci – dall’altro si determinarono il coalizzarsi di tutte le componenti della società preoccupate dalla capacità del governo di introdurre cambiamenti e innovazioni.
Si può sostenere sia che il voto del 2014 (tra l’altro in una competizione particolare come le europee), fosse un voto dato alle intenzioni, non a provvedimenti di governo. Sia che il risultato del 2018 sia dovuto al fatto che quando si governa si scontenta sempre qualcuno e che in Europa tutte le forze di governo hanno pagato il prezzo del governo.
Certo è che dal risultato del 2018 emerge una profonda delusione dell’elettorato verso quello che si sperava potesse fare il PD. Molti elettori il 4 di marzo hanno deciso di cambiare i politici perché il PD non è sembrato capace di cambiare l’Italia.
Il contrasto alla riforma costituzionale
Il fronte ostile al rafforzamento del governo a guida Matteo Renzi ha concentrato tutte le sue forze nel contrasto alla riforma costituzionale (e la connessa nuova legge elettorale) che il Presidente Napolitano aveva posto come condizione della propria rielezione “a tempo” e che era diventata la ragione stessa della nascita prima del governo di Enrico Letta e dopo di Matteo Renzi.
La rottura dell’intesa con Forza Italia (peraltro avviata per la formazione del governo Letta) sulla elezione del Presidente Mattarella ha segnato il cambiamento di clima tra il paese e il PD. Da quel momento la riforma costituzionale da modernizzazione del sistema istituzionale italiano si è trasformata in messa in discussione della sua stessa natura democratica. La preoccupazione ampiamente sostenuta da settori consistenti del sistema mediatico non ha determinato un cambiamento nell’atteggiamento del Governo di Matteo Renzi che anzi è sembrato avviarsi in una spirale di rilanci successivi ad ogni difficoltà con l’opinione pubblica. Ne è scaturita quella che è stata definita una certa bulimia riformatrice che a volte è parsa dettata dalle contingenze del momento piuttosto che da una visione ben definita.
Le riforme tra complessità e resistenze
La sottovalutazione delle difficoltà economiche e delle complessità burocratiche (le famose riforme dei primi cento giorni) si sono così connesse alla lentezza della ripresa (e soprattutto alla debole percezione dei suoi effetti sulla vita delle persone) e alle resistenze di molti settori della società che si sono sentiti spaventati da un governo che minacciava e cominciava davvero a cambiare il paese.
Così, mentre si ripeteva che la performance del governo era la migliore possibile date le condizioni (di coalizione, di scarsità delle risorse pubbliche), il risultato dell’azione di governo “non arrivava” all’opinione pubblica e non passava sui media.
Così è stato per la proposta di riforma costituzionale, la cui necessità peraltro condivisa da molti costituzionalisti e dalle altre forze politiche viene ribadita dalle vicende in corso. Così è stato per il pacchetto del Jobs Act, rimasto per molti aspetti una riforma incompleta. Così la decisione di rilanciare i consumi partendo dai redditi più bassi, con il provvedimento degli 80 euro. Così l’intuizione di dover affrontare molti nodi da troppo rimandati: la pubblica amministrazione, la spending review, la scuola.
In alcuni casi le riforme le riforme sono state promosse senza una diagnostica adeguata e spesso sono state sottovalutate le difficoltà connesse alla loro implementazione (ai tempi necessari dall’annuncio alla esperienza delle persone nella loro quotidianità). Troppo spesso, i tentativi di riforma sono stati percepiti come dall’alto e divisivi. Era diffusa che si dovessero fare riforme contro qualcuno (il sindacato, i consiglieri regionali, i furbetti del cartellino) e non a beneficio di qualcuno (i giovani che entrano nel mercato del lavoro, i cittadini che si aspettano un servizio pubblico più vicino, gli elettori che vorrebbero un sistema di governo più chiaro e responsabile).
In ultima analisi abbiamo creato troppe aspettative e sollecitato troppe ostilità a volte frutto di resistenze al cambiamento necessario.
Tra queste resistenze va annoverata certamente quella dei settori maggioritari del movimento sindacale messi fortemente in difficoltà nel rapporto con i loro rappresentati sia sul terreno simbolico sia su quello materia dalla legge Fornero e dell’abolizione dell’articolo 18.
Pietre d’inciampo: banche, immigrazione, critiche interne
La crisi del sistema bancario e le vicende personali di alcuni membri del governo hanno poi dato la possibilità a una parte consistente del settore mediatico di associare drammaticamente il governo Renzi all’establishment finanziario descritto come il responsabile principale della crisi.
Al cambiamento del clima d’opinione nel paese non ha corrisposto un adeguato cambiamento di passo o di “narrazione” da parte del governo e di Matteo Renzi. Il problema delle migrazioni e della sicurezza ha fornito poi carburante ai discorsi incendiari di una parte consistente della destra e dei media. Senza sottovalutare il quotidiano stillicidio di critiche interne che come hanno dimostrato i voti non ha portato alla nascita di qualcosa di alternativo ma solo alla disaffezione e alla migrazione verso M5S e Lega.
La sconfitta del 4 dicembre 2016 ha praticamente segnato e anticipato la sconfitta delle elezioni del 4 marzo 2018. Il comportamento seguito nei mesi successivi, concentrato sulla valorizzazione delle cose fatte, non è stato in grado di modificare il clima di opinione consolidato nel paese.
La sottovalutazione del ruolo del partito
Centralizzazione e personalizzazione della relazione con il paese e l’opinione pubblica: il problema del partito.
Se durante l’attività di governo potevano essere trovate giustificazioni per la scarsa attenzione data da Matteo Renzi al consolidamento della sua leadership nel partito questo atteggiamento non si giustifica dopo la sua forte riaffermazione al congresso e alle primarie che gli rinnovarono un ampio consenso non solo tra gli elettori ma anche dentro il partito.
Quell’atteggiamento ha evidenziato una sottovalutazione se non una “non” considerazione del ruolo del partito, di una forma di presenza organizzata nel paese, a sostegno dell’attività del governo, intesa non come propaganda amplificatrice ma come costruzione di una visione condivisa delle ragioni ispiratrici dell’azione di governo stessa
A questa sottovalutazione va collegata sia la scarsa attenzione data non solo alla formazione di una nuova classe dirigente politica legata alla nuova stagione sia la scelta di confederare i vecchi gruppi di potere locale diventati sostenitori del vincente secondo le ferree regole della conservazione delle burocrazie.
I nuovi gruppi dirigenti della stagione di Matteo Renzi sono così apparsi come l’assorbimento di quelli che c’erano prima. E Matteo Renzi ha contribuito a confermare la propria immagine di persona isolata dedita a dare poca fiducia all’esterno di un ristretta cerchia di collaboratori. Convinto soprattutto che l’azione determinante fosse quella possibile dal governo nazionale.
E conseguentemente si è lasciata degenerare una litigiosità patologica che riproponeva costantemente una messa in discussione della leadership a dispetto degli esiti congressuali. Si sono contrapposte così la ripetitiva e inconcludente richiesta di luoghi e momenti di approfondimento e verifica e una sottovalutazione della necessità di determinare una maggiore coesione sulle ragioni delle scelte e sulle visioni alla base dell’attività di governo.
Gli obiettivi del rilancio
Per chi crede che la direzione politica impressa dall’affermazione di Matteo Renzi alla guida del governo e del PD siano state e rimangano positive si tratta ora di individuare le correzioni da introdurre per rilanciare l’iniziativa del PD in vista sia della delicata fase parlamentare che porterà alla formazione di un governo sia del futuro congresso che appare decisivo per la definizione della sua identità (anche in vista della importante scadenza elettorale delle europee del 2019).
Il primo obiettivo oggi ci pare essere quello di consolidare una cultura politica che non scinda attività parlamentare e di governo da un lato e azione del partito dall’altro. Che sappia inserire le attività amministrative e di governo in una visione che renda evidenti i perché delle scelte, mantenendoli adeguati al sentire diffuso. Un passo avanti ma non un miraggio. Come si disse non un foglio Excel ma una prospettiva e perché no un sogno, credibile e soprattutto sostenuto da comportamenti che accrescono la credibilità.
Una cultura politica aperta e plurale
Una cultura politica aperta e plurale che si nutre del costante confronto con le esperienze migliori (il merito) da un lato e la capacità di intercettare nuove istanze (i bisogni) della cittadinanza dall’altro. Una cultura politica che sia in grado di guardare in modo approfondito i limiti delle scelte di questi anni senza però ripiegare rispetto alla grande spinta di innovazione che la leadership di Matteo Renzi ha portato con sé. Occorre smarcarsi dal governismo, dal Pd come partito della gestione del potere, e riposizionarci sulla frontiera del cambiamento.
Attenzione alla organizzazione del partito
Questo significa porre una attenzione che finora è mancata sulla organizzazione del partito. Un’organizzazione che non si fermi allo Statuto ma che consideri la governance reale dei processi materiali, delle attività che si svolgono a livello locale, quindi non solo il livello nazionale. Che affronti con coraggio i nodi dei rapporti tra gruppi dirigenti ed eletti, della selezione delle candidature, della professionalizzazione delle funzioni organizzative propriamente dette (sviluppo del tesseramento, finanziamento, cura delle sedi, comunicazione, ecc.).
Un’organizzazione che declinando la scelta di essere composta di iscritti e elettori, militanti e primaristi, diventi un cardine tra istituzioni e società civile. Un’organizzazione aperta che ricerca e struttura i momenti di ascolto e contatto con la società civile e le competenze non solo allo scopo di verificare il proprio agire e il fondamento delle proprie scelte ma anche per reclutare risorse nuove e impedire la sclerosi tipica delle burocrazie basate sulla cooptazione.
Questo è il tipo di esperienza che crediamo si sia messa in moto a Milano dove in questi anni è non solo aumentata la capacità del Partito di avvicinare alla politica e alle istituzioni le nuove generazioni ma è cresciuta l’organizzazione e la capacità di mobilitarsi intorno alle diverse campagne sia elettorali che tematiche.
Un “partito nazionale” perché presente su tutto il territorio nazionale e capace di fare emergere una visione nazionale della soluzione dei problemi italiani in una cornice europea ma un partito federale capace anche di aderire alle peculiarità della storia italiana come storia di città e regioni.
Un partito capace di consolidare a livello nazionale la scelta dell’unicità della guida politica del partito e della rappresentanza parlamentare (sia essa opposizione o componente del governo) e declinarla a livello delle federazioni, dei sindaci e dei comitati regionali.
Una cultura che, superando la paura del leader, non solo ne riconosca la funzione essenziale e necessaria di semplificatore di complessità si ponga operativamente il compito di essere un ambiente che recluta, sollecita, forma nuovi leader. Il problema non è il leader ma il suo stile di leadership la sua capacità di riconoscere la funzione indispensabile della rigenerazione del proprio ruolo che avviene solo attraverso la costruzione di meccanismi chiari e condivisi anche se competitivi di ricambio fisiologico e non patologico della leadership. Cioè un vivaio di leadership potenziali.
Congresso, primarie e proposta politica
In questa delicata e incerta fase politica sarà fondamentale non solo restare uniti davanti alle forti pressioni che dovremo affrontare rispetto alla formazione del governo, ma avviare un percorso congressuale coraggioso capace di alzare la qualità del dibattito interno e di chiarire non solo il perimetro della direzione comune, ma le grandi scelte di merito che i diversi candidati porteranno a sostegno della propria proposta politica. Siamo convinti che le primarie in questo restino, se possibile ancora di più in questo momento che ci impegna tutti ad un riavvicinamento tra partito e potenziali elettori, lo strumento principe per una forte legittimazione della leadership.
Non solo, per non morire di tattica o di posizioni tutte autoreferenziali, dobbiamo da subito, come già ha cominciato a fare Maurizio Martina nel primo giro di consultazioni al Quirinale, affermare le nostre proposte per il Paese.
Non solo proseguire nello sviluppo di strumenti di contrasto alla povertà come il Rei, ma promuovere misure coraggiose in favore della occupazione dei giovani, delle donne e a sostegno della genitorialità.
Riprendere il percorso di ammodernamento della formazione e della scuola, premessa ineludibile per costruire nuova e migliore occupazione.
Rilanciare le riforme istituzionali per migliorare la qualità e la semplicità della pubblica amministrazione, ad ogni livello. Ripensare al governo locale come al luogo del cambiamento capillare e diffuso in un quadro di accompagnamento e declinazione sulle specificità territoriali delle strategie nazionali.
Riproporre la necessità di una coraggiosa riforma costituzionale (superando il trauma del referendum perso) e della legge elettorale (recuperando la spinta maggioritaria che si è persa nella attuale legge proporzionale). Rimane prioritaria la necessità di affermare in Italia una democrazia decidente, in una democrazia dell’alternanza, nella quale la competizione tra schieramenti avversi produce idee, proposte e decisioni di governo.
Mantenere vivo l’europeismo
Farsi portatori di proposte ambiziose a livello europeo: dagli investimenti strategici, al sostegno alla occupazione, alle politiche migratorie, alle misure a tutela dell’ambiente, alla difesa comune, al rafforzamento delle istituzioni comunitarie e dei partiti politici che da troppo tempo rinviano una loro riorganizzazione in senso sovranazionale.
L’Europa, sovrana perché legittimata dal voto popolare, è lo strumento col quale fronteggiare le sfide della globalizzazione e deve essere al centro delle nostre politiche, ma non può essere un alibi. Dobbiamo mantenere vivo il nostro europeismo ma allo stesso tempo praticare politiche nazionali coraggiose che ci consentano di dare risposte immediate ai nuovi bisogni di protezione e sostegno allo sviluppo che sono emersi in questi anni.
Attraverso queste proposte possiamo mantenere aperta una comunicazione costante con i cittadini con l’ambizione, che non dobbiamo mai smarrire, di poter presto tornare ad essere la più credibile proposta di cambiamento e di adeguamento del nostro Paese alle sfide della modernità.