di Vittorio Ferla
L’intesa raggiunta ieri tra Enrico Letta e Carlo Calenda (e Benedetto Della Vedova) resterà, molto probabilmente, lo snodo fondamentale della campagna elettorale del 2022. Com’è noto, infatti, il Rosatellum, nonostante l’ampia quota di seggi attribuiti con sistema proporzionale, determina una forte spinta verso la bipolarizzazione della sfida elettorale. Presentarsi divisi all’appuntamento avrebbe permesso al Partito Democratico e ad Azione, forse, di diventare le punte di lancia della propria area politica: la sinistra che guarda al centro (il Pd) e i liberali che il centro lo occupano (Azione e +Europa). Ma non avrebbe dato loro alcuna chance realistica di competere seriamente nei collegi uninominali contro la coalizione di destra (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia). Alla fine, la dura legge dei numeri si è imposta anche sulle idiosincrasie di Carlo Calenda. Enrico Letta può tirare un sospiro di sollievo: ci sono almeno le condizioni di partenza per giocarsela senza rischiare il ‘cappotto’ nei collegi uninominali. Viceversa, senza accordo, la campagna elettorale sarebbe stata chiusa ancora prima di cominciare.
L’intesa di ieri lascia però degli strascichi, sia sul piano della reputazione che della gestione delle liste. I tira e molla di questi giorni, infatti, hanno già trasmesso al paese un senso di incertezza sulla reale volontà dei partner di lavorare uniti. Inoltre, le ripetute schermaglie hanno alimentato sia nel personale politico che nella base elettorale dei due gruppi un mix reciproco di antipatia e diffidenza che bisognerà essere bravi a superare in fretta se non si vuole correre il rischio di consumare energie nelle lotte fratricide, mentre l’avversario sta da un’altra parte. Infine, i giudizi taglienti di Calenda hanno già offerto agli avversari tutti gli argomenti possibili per evidenziare le contraddizioni e le crepe dell’alleanza. Nei giorni scorsi, il leader di Azione ha trascorso la gran parte del suo tempo a ricordare la sua incompatibilità con alcuni degli alleati di Letta: Fratoianni, Bonelli e Di Maio. Come se non bastasse, ha chiuso la trattativa con l’impegno a lasciar fuori dai collegi uninominali alcuni suoi candidati in quanto sgraditi al Pd. “Le parti si impegnano a non candidare personalità che possano risultare divisive per i rispettivi elettorati nei collegi uninominali, per aumentare le possibilità di vittoria dell’alleanza”, spiega infatti l’accordo finale. Azione e Pd piazzeranno gli “indigeribili” solo nelle liste della parte proporzionale, evitando ai due elettorati di votare turandosi il naso. Di conseguenza, recita l’accordo, “nei collegi uninominali non saranno candidati i leader delle forze politiche che costituiranno l’alleanza, gli ex parlamentari del M5S (usciti nell’ultima legislatura), gli ex parlamentari di Forza Italia (usciti nell’ultima legislatura)”. Niente collegi, dunque, per gli stessi Letta, Calenda e Della Vedova. Ma nemmeno per Di Maio, D’Incà, Crippa, Gelmini e Carfagna. Viene da chiedersi, a questo punto, se i vari leader si ritroveranno mai a fare la classica foto di gruppo da fine comizio. Sul punto, l’accordo non può dir nulla. Ma la potenza delle immagini non va sottovalutata: nessuno ha dimenticato, per esempio, la malaugurata foto di Narni che immortalò Zingaretti, Conte, Di Maio e Speranza qualche giorno prima della sconfitta alle regionali dell’Umbria del 2019. La coalizione di destra gongola: con tutti questi distinguo sembra che siano gli stessi protagonisti dell’accordo ad ammettere l’eterogeneità e l’inaffidabilità della coalizione di centrosinistra. Per evitare il ridicolo, è indispensabile che l’intesa di ieri non abbia code polemiche. Molti già scommettono sul fatto che Calenda, dopo aver giurato e spergiurato che, così, l’accordo è perfetto e risponde alle sue aspettative, non si alzi una mattina con un tweet dei suoi per attaccare uno degli alleati, anche per interposto Pd. Se andasse così darebbe ragione al dem Matteo Orfini, ultimo epigono della cultura dalemiana (e togliattiana), che a proposito dell’accordo ha dichiarato: “rischiamo di trovarci un nemico in casa”.
E, tuttavia, lo stratagemma ‘all’italiana’ potrebbe alla fine funzionare. Bisogna riconoscere a Enrico Letta che il suo stile felpato nella gestione delle relazioni con gli alleati finora sembra avere successo: non era affatto facile gestire un personaggio fumantino come Calenda. Se, poi, il leader del Pd – “nessun veto”, ha ribadito ieri – riuscisse a portare a bordo anche Matteo Renzi, nonostante l’antipatia che l’ex premier raccoglie da tutte le parti, non saremmo più nel campo largo, ma nel campo dei miracoli. Allo stesso modo, bisogna riconoscere a Calenda la capacità di aver puntato i piedi fino a costringere il Pd a mettere per iscritto la rinuncia definitiva al populismo pentastellato e un programma esplicitamente erede dell’esperienza di governo di Mario Draghi. D’altra parte, sarebbe strano il contrario: è vero che il governo Draghi è in carica solo per gli affari correnti, ma non bisogna dimenticare che non è mai stato sfiduciato e che la maggioranza che lo sostiene attualmente, dopo il ritiro di Forza Italia e Lega, è proprio quella di centrosinistra.
Insomma, la politica non è solo compilazione di liste e sarebbe un errore di analisi ridurre solo al mercato dei seggi il patto concluso ieri. La stretta di mano di Letta con Calenda e Della Vedova battezza la nascita di fatto dell’Agenda Draghi (senza Draghi, almeno per ora). “Le parti condividono e si riconoscono nel metodo e nell’azione del governo guidato da Mario Draghi. I partiti che hanno causato la sua caduta si sono assunti una grave responsabilità dinanzi al Paese e all’Europa”, si legge nel documento finale. Il primo discrimine è la politica estera ed europea. Pd, Azione e +Europa rimarcano il “solido ancoraggio all’Europa” e il “rispetto degli impegni internazionali dell’Italia e del sistema di alleanze così come venutosi a determinare a partire dal secondo dopoguerra”. Da qui si parte, senza concessioni alle democrazie illiberali, per “proseguire nelle linee guida di politica estera e di difesa del governo Draghi con riferimento in particolare alla crisi ucraina e al contrasto al regime di Putin”. Insomma, per i due alleati del centrosinistra “le prossime elezioni sono una scelta di campo tra un’Italia tra i grandi Paesi europei e un’Italia alleata con Orban e Putin”. Sul piano programmatico ed economico, l’agenda Draghi si declina in pochi, chiari, punti. Primo: l’attuazione del Pnrr. Secondo: improntare le politiche di bilancio alla responsabilità e le politiche fiscali alla progressività, riforma del Patto di Stabilità della Ue, archiviando la stagione dell’austerità. Terzo: no all’aumento del carico fiscale complessivo. Quarto: correzione del reddito di cittadinanza e del superbonus in linea con l’orientamento del governo Draghi. Da registrare anche un ultimo punto (fuori dall’agenda Draghi) sull’approvazione delle leggi in materia di diritti civili e di Ius scholae. Non mancano i sì ai rigassificatori, al salario minimo e al cuneo fiscale che accontentano entrambe le parti.
Resta inevasa la domanda finale: chi sarà il premier chiamato a realizzare questo programma, in caso di vittoria del centrosinistra? Nella conferenza stampa di ieri, Letta e Calenda si limitano a promettere: “il premier lo decideremo insieme”. Per ora giocheranno nel ruolo di coppia di front-runner. Forse perché il candidato premier è già lì, a Palazzo Chigi, che attende tranquillo il suo secondo giro di giostra.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).