di Enrico Morando
È utile, oggi, discutere della strategia politica dell’alleanza tra merito e bisogno? È utile leggere il (e riflettere sul) libro che Martelli ha pubblicato per la Nave di Teseo qualche settimana fa? La mia risposta è convintamente affermativa.Per rendere conto delle sue ragioni, devo tornare al 1982, alla Conferenza programmatica di Rimini del PSI: con l’alleanza tra merito e bisogno Martelli cercava di riconciliare la sinistra di governo (italiana e non solo) con la realtà economica, sociale e culturale del tempo.
Con la fine dei 30 gloriosi del novecento -un lungo periodo di egemonia politico-culturale della socialdemocrazia in tutto l’Occidente-, il rapporto tra sinistra di governo e la realtà della vita quotidiana della maggioranza dei cittadini dell’Occidente si indebolisce. Le politiche del compromesso socialdemocratico perdono efficacia: la crescita economica determinata dalla distruzione creatrice del capitalismo (Schumpeter) -in cui il dinamismo economico è garantito dal processo di innovazione della “creazione”, frutto del combinarsi dell’iniziativa imprenditoriale e degli spiriti animali del capitalismo, con le nuove scoperte scientifiche e le conseguenti innovazioni tecnologiche dei prodotti e del processo di produzione- sembra perdere slancio. Mentre le politiche socialdemocratiche di progressiva espansione dello Stato sociale, sorrette dalla piena occupazione, capaci di mitigare -nell’utopia socialista, annichilire- le sofferenze provocate dalla distruzione, incontrano limiti strutturali crescenti. È lo spettro della stagflazione: crescita assente o bassissima, inflazione elevata.
Quella che Martelli chiama (pag. 14) “ la sociologia pietrificata delle classi“, per quanto fallita e disonorata dai regimi repressivi instaurati in suo nome, aveva fornito anche al riformismo socialdemocratico (penso alla sua migliore espressione italiana, Filippo Turati), una fonte analitica e una chiave interpretativa della realtà economica, sociale e culturale del tempo. L’incontro dei grandi partiti laburisti e socialdemocratici -costruiti sulla solida base sociale del proletariato industriale- con la teoria analitica e le soluzioni del grande pensiero liberale, da Keynes a Beveridge, aveva dato vita a politiche di successo, sia sul versante della crescita economica, sia sul versante della diffusione del benessere. Quando, alla fine dei 30 gloriosi, la realtà presenta nuove faglie (Graziosi), rotture di continuità e nuove contraddizioni, è la destra a reagire con più velocità ed efficacia, facendo tesoro degli insegnamenti derivanti dalla sconfitta subìta per mano della sinistra. Nel condurre la sua rivincita (emblematicamente databile proprio nel 1981, quando Reagan diventa Presidente, a conferma della svolta intervenuta nel Regno Unito con la vittoria della signora Thatcher), la nuova destra adotta parti significative del discorso della sinistra, ma le colloca nel contesto di una strategia di individualismo proprietario e antistatalista (la società non esiste; lo Stato non è la soluzione: è il problema).
Al contrario, la sinistra è come spaesata: le novità sono spesso frutto delle sue conquiste, ma si presentano come stravolgenti le consolidate sicurezze della maggioranza del “popolo“. Per fare qualche esempio, preso in prestito dal contributo fornito dallo storico Andrea Graziosi (il foglio 10-2-25): in quei primi anni 80 del novecento si potevano cogliere i segni anticipatori di una dinamica demografica lontanissima da quella in cui la sinistra aveva agito con successo nella fase di costruzione dello stato sociale. Una dinamica di crescita zero (o negativa) della popolazione europea ed italiana che era in parte significativa attribuibile all’azione positiva del sistema sanitario pubblico. E al cambiamento culturale connesso al diffondersi del benessere, favorito dalle lotte sociali dei lavoratori e dalle politiche dei governi progressisti.
In secondo luogo: il declino relativo dell’Europa, teatro delle più avanzate esperienze di governo della sinistra. Anch’esso, a ben vedere, un effetto determinato dal successo di politiche di coesistenza pacifica, di decolonizzazione e di cooperazione che la sinistra di governo aveva attivamente sostenuto e promosso in tutto l’Occidente.
Infine -per concludere con un esempio in campo culturale-, il diffondersi dell’istruzione secondaria e universitaria di massa e, con essa, di una concezione del merito che lo confonde col talento. Martelli (pag 252) ne scrive prendendo le mosse dalla parabola dei talenti del Vangelo di Matteo, sconcertante per chi non distingue tra i doni di Dio -le monete distribuite dal signore ai suoi servi- e l’uso che se ne fa… È l’ideologia del merito senza riconoscimento, per dirla con Martelli. Del merito… non meritato col lavoro, con lo studio, con l’impegno, con l’empatia verso l’altro.
Messa di fronte a queste rotture di continuità, la sinistra sbanda, si chiude a difesa delle sue politiche del passato: “basterebbe fare come abbiamo sempre fatto…“.“Se non ci fosse stato il tradimento dei chierici…“. Constatato che questo rivolgersi al passato non la porta fuori dai guai, il rifugio nel moralismo diventa una strategia politica. È il Berlinguer del governo degli onesti e della diversità comunista.
Il moralismo non è il fondamento etico della politica (pag.321): “La sostanza del socialismo democratico consiste in una obbligazione morale alla libertà, alla giustizia e alla solidarietà“ (Brandt, Palme, Kreisky). Il moralismo è un ritiro dalla politica.
Con la strategia dell’alleanza tra merito e bisogno Martelli -per primo tra i leader politici della sinistra di governo (i Blair, gli Schroeder, i Clinton verranno dopo (pag.111)- cerca di riconciliare il “nostro“ sistema di idee con la nuova realtà. Cerca di definire un “discorso politico che interpretando i fatti e contestando avversari, deve trasmettere un senso di appartenenza, possedere un pensiero e un sentimento, indicare dei traguardi tali da mobilitare i militanti e da attrarre gli elettori”. Martelli usa parole che anche la destra vincente usa: merito e bisogno, ma ne stravolge il significato (pag. 129): “in quegli anni il merito sembrava quello dei ceti rampanti, e il bisogno un marchio negativo che al massimo suscita compassione, non riconoscimento, né cura“. Questa strategia politica -l’alleanza tra merito e bisogno- costituisce (pag.149) “ un programma politico imperniato sul loro simultaneo riconoscimento e sulla loro connessione“.
Ora, tenendo bene in mente quel “interpretando i fatti e contestando avversari”, possiamo tornare alla domanda iniziale: resta valida e utile, questa strategia? Lo pensavamo quando abbiamo tentato -con la nascita del PD sulle basi proposte dal discorso del Lingotto di Veltroni e con la dura battaglia politico-culturale che lo ha preceduto e preparato- di proporre un “nuovo inizio“ per la sinistra di governo. Io continuo a pensarlo, perché la sinistra – che , facendo leva sui nostri errori, ha preso legittimamente altre strade- non ha risolto i suoi problemi di rapporto con la realtà. Non appare in grado di rappresentare una credibile alternativa di governo proprio perché fatica a guardare in faccia i fatti e, di conseguenza, a contestare efficacemente le scelte dell’avversario politico.
La realtà propone domande maledettamente scomode: la guerra in Europa e le spese per la costruzione di una effettiva capacità di deterrenza, facendo i conti colla scelta di disimpegno degli USA. Il governo dell’immigrazione… I costi sociali e politici della transizione ambientale. La demografia, che traduce nella realtà della accelerata decrescita i segnali premonitori dei primi anni 80…
Messa di fronte a queste domande imbarazzanti, gran parte della sinistra occidentale si rifugia nell’ovvio o nel silenzio. In Italia, ancora una volta, nel moralismo. In una recente intervista la Segretaria del PD (partito al quale mi onoro di appartenere) ha dichiarato: “ la nostra visione…tiene inscindibilmente assieme la giustizia sociale, la giustizia climatica, il lavoro dignitoso, l’innovazione, i diritti della persona…“. È una visione certamente condivisibile. Buona per sempre e dovunque. Ma troppo lontana dalla urticante realtà dei fatti per risultare capace di ispirare soluzioni credibili per i problemi avvertiti come tali dai cittadini. Accade così che si occupi il presente con battaglie sul passato ( il referendum sul Jobs Act ). Che il governo potrà bellamente permettersi di ignorare. Oppure che si ispirino le iniziative dell’opposizione non ad un giudizio di merito sulle proposte della maggioranza ( esempio: bene la separazione della carriera della magistratura requirente da quella della giudicante; male il sorteggio per i componenti laici del CSM), ma alle “cattive” intenzioni del governo proponente.
C’è tanto spazio per il lavoro politico dei riformisti, ma bisogna occuparlo bene e subito. Perché il mutamento della realtà sta procedendo a rotta di collo…
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)