di Vittorio Ferla
Il voto di mercoledì scorso sulle armi all’Ucraina si trasforma per il Pd in un vero e proprio collasso morale e culturale che sprofonda plasticamente il partito nel girone degli ignavi della politica, incapaci di assumere una posizione seria sia di fronte al proprio elettorato che di fronte agli altri partiti socialisti e democratici del blocco occidentale.
L’oggetto del voto alle camere erano le cosiddette “linee guida” per la proroga dell’invio di armi a Kiev, sulla base delle comunicazioni del ministro della difesa Guido Crosetto. Il Pd si presenta con una propria risoluzione che prevede l’invio di armi, in apparente coerenza con la posizione assunta nel corso dell’ultimo biennio di guerra della Russia contro l’Ucraina sotto il governo di Mario Draghi.
L’indirizzo politico, però, è più fumoso perché la stessa risoluzione promossa dalla segreteria sollecita una iniziativa diplomatica di cui non si comprendono né gli strumenti, né i contorni, né i protagonisti, critica la fragilità dell’azione europea ma senza alcun impulso a moltiplicare gli sforzi per una politica estera comune e una politica di sicurezza e di difesa finalmente coordinata ed efficace, esprime l’ovvia sfiducia nei confronti di un governo che, mentre vota a favore delle armi, continua a flirtare con Viktor Orban che fa la quinta colonna di Vladimir Putin dentro i confini dell’Unione europea.
Insomma, si capisce lontano un miglio – e non certo da mercoledì – che Elly Schlein si trova in imbarazzo nei panni dell’alleata dell’Ucraina. Se potesse mollerebbe Kiev al suo destino, seguendo il suo istinto ideologico e la sua tradizione politica: un pacifismo peloso e unilaterale che vede il suo principale nemico negli Stati Uniti d’America, patria della democrazia occidentale e del sistema capitalistico liberale, non certo nella Federazione Russa, il titano europeo delle autocrazie orientali, espressione di una cultura illiberale e regressiva che stigmatizza come demoniaci i valori basilari dell’Unione europea.
Così, Schlein si muove da mesi lungo l’equilibristico crinale che la costringe ad accettare l’invio di armi (proprio come prevedono le risoluzioni del governo e quella dei partiti liberal-democratici del fu Terzo Polo) ma con la riluttanza di chi non vuole lasciarsi superare a sinistra dai Cinquestelle di Giuseppe Conte. Un comportamento che rivela tutta la sua ambiguità: l’invio delle armi è ammesso, ma non è una posizione chiara e netta, in imbarazzante controtendenza con la posizione per esempio dei socialdemocratici di Olaf Scholz che proprio nei giorni scorsi ha chiesto ai paesi europei un impegno maggiore, sia politico che economico, sulle politiche di sicurezza a difesa dell’Europa contro la minaccia che proviene dal Cremlino.
Viceversa, prevale una posizione del tutto subalterna al M5s, campione del populismo antieuropeo ed espressione della sinistra più reazionaria che simpatizza con le dittature e, soprattutto, lucra sulla voglia di (essere lasciato in) pace di una parte dell’elettorato italiano. Così facendo, però, appare evidente il tradimento definitivo delle ragioni della nascita del Pd come partito liberaldemocratico e riformista, iscritto nella tradizione del socialismo europeo.
Proprio grazie alla sua identità postideologica coerente con i valori di libertà e democrazia iscritti nella Costituzione italiana e nella unità europea, fin da quando è nato il Pd è stato il perno delle istituzioni nazionali, a partire da un chiaro e indubitabile schieramento in quel campo atlantista ed europeista che il presidente Sergio Mattarella non si stanca mai di ricordare e ribadire come fonte e, allo stesso tempo, destino dell’Italia democratica e repubblicana.
Viceversa, oggi, il Pd, se da un lato si limita a riproporre come un riflesso moralistico l’antico e stanco rito dell’indignazione contro la banda di energumeni idioti che fanno il saluto romano ad Acca Larenzia, dall’altro lato, inseguendo la scia dei grillini, mostra di aver smarrito il senso dell’orientamento di fronte a un dittatore fascista fatto e finito come quello che governa la Russia e che dal Cremlino minaccia di obliterare decenni di democrazia e libertà conquistata a fatica dai popoli europei. E se il M5s si volge esplicitamente dall’altra parte di fronte alla richiesta di aiuto degli ucraini che dall’inizio degli anni ’90 hanno scelto l’Europa, avviando con convinzione un complicato cammino verso la libertà e i diritti chiedendo soltanto di essere tutelati nel loro diritto all’autodeterminazione, il Pd, con il suo atteggiamento ambiguo, rischia di smantellare definitivamente la sua identità democratica e di alimentare le inevitabili perplessità degli altri partiti della famiglia socialista europea.
Ecco perché, di fronte a tutto ciò, qualcuno nel Pd comincia finalmente a soffrire la trasformazione genetica e la deriva culturale della segreteria di Elly Schlein. Mercoledì, approfittando del fatto che le risoluzioni si votano per punti, è successo che alla Camera, Lorenzo Guerini, peraltro già ministro della Difesa, assieme a Marianna Madia, anch’essa ex ministro, e a Lia Quartapelle, già responsabile esteri del partito prima dell’incarico all’ineffabile Giuseppe Provenzano, hanno votano il primo punto della mozione di maggioranza (a favore dell’invio delle armi, appunto) e contro alcuni punti della mozione dei Cinque stelle, in coerenza con le convinzioni consolidate e con le votazioni precedenti. In più, rompendo l’ottusa disciplina filogrillina e antirenziana della segretaria, hanno votato anche la mozione del Terzo polo, che semplicemente ribadiva cose che per il Pd dovrebbero essere scontate.
Quindi al Senato, dove nel frattempo l’ordine di scuderia era cambiato (astensione sulla risoluzione di maggioranza, si a quella del Terzo polo, no a quella dei Cinque stelle), sono sei i senatori che, per coerenza, si esprimono a favore della mozione di maggioranza: Dario Parrini, Filippo Sensi, Simona Malpezzi, Valeria Valente, Pier Ferdinando Casini, Tatjana Rojc. In questo caso, a confondere ulteriormente il quadro contribuisce Susanna Camusso, l’ex segretaria della Cgil che pensa bene di astenersi sia sulla risoluzione del Terzo polo (invece di votare a favore) sia sulla mozione del suo stesso partito sui due punti che riguardano le armi: un fatto che la dice lunga sul sottotesto sindacal-populista che ispira le azioni della coppia Conte-Schlein.
E in tutto questo pasticcio, si sente fortissimo il silenzio assordante di una segretaria senza arte né parte che con la storia dei dem condivide pochissimo e rischia così facendo di condurre il partito allo sbaraglio mentre Giorgia Meloni gongola.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).