di Giovanni Cominelli
Che Naval’nyj sia morto di veleno o di raffreddore da circolo polare artico o di quella strana “sindrome da morte improvvisa”, che pare assai diffusa in Russia, se ti trovi a uscire dall’ascensore, come Anna Politkovskaja, o a camminare su un ponte, come Boris Nemcov, o a viaggiare in aereo come Evgenij Prigožin, un fatto è certo: si tratta di un delitto politico. Non è occasionale.
L’assassinio politico è il sistema di governo praticato abitualmente da Putin, da quando è salito al potere. Ha ripreso una tradizione, quella di Stalin. Durante il regime staliniano era stato praticato verso le élites, verso intere categorie, verso intere etnie, nella modalità di omicidio di massa.
Dopo il 1956 il metodo era stato parzialmente dismesso. Funzionava pur sempre la cura siberiana, con tassi di mortalità che arrivavano all’80% degli internati. Storia atroce del ‘900: era il prezzo della costruzione dell’ “uomo nuovo”. L’uomo nuovo non si è visto, ma il sistema dell’assassinio politico persevera.
Perché Putin abbia, ciò nonostante, una solida maggioranza dei consensi lo si deve certamente e in primo luogo all’estrema manipolazione dei mezzi di informazione e ai metodi di intimidazione assassina. Ma non è la causa principale. Il fatto è che la società civile russa non dispone delle casematte di cui scriveva Antonio Gramsci. L’essenza del regime comunista è consistita nella statalizzazione integrale della società civile.
La statizzazione dell’economia ha trascinato con sé quella delle coscienze. La politica è divenuta sopraffazione e violenza degli apparati sulla società e sugli individui. Il decennio post-1989 aveva fatto intravedere all’orizzonte lampi di democrazia, di cui la società sperimentò prevalentemente e da subito il lato anarco-mercatistico violento e brutale. Pezzi del partito, dell’amministrazione, dell’esercito, di servizi segreti corsero ad impadronirsi delle enormi ricchezze naturali del Paese.
Le élite comuniste erano già state abituate a identificarsi con lo Stato, perciò erano già intimamente corrotte. Così la “democrazia” partì dal libero mercato, in una sorta di nuova e convulsa accumulazione originaria, ma non fece in tempo ad arrivare ai diritti dell’uomo e del cittadino. Tra il 1991 e il 1999 nasce quello che l’economista B. Milanovic definirebbe “un regime estrattivo”, di cui Eltsin è stato il capo.
La reazione popolare all’anarchia e alla rapina da parte di pezzi di élite fu gestita da un altro pezzo delle élite, che pretese il monopolio della rapina e diede ai cittadini la parvenza di ordine e benessere. Questa è la base sociale del putinismo. Il quale, per giustificarsi, è andato a cercare i fondamenti storici nello stalinismo e nello zarismo, caratterizzati dal primato della politica estera rispetto a quella interna. L’ideologia neo-imperiale della Grande Russia sta alla base del contratto politico tra élite e cittadini. Il diritto di saccheggio di uno Stato vicino ha ricadute positive sul benessere interno.
Così, persino le famiglie dei soldati delle lontane e povere Repubbliche russo-asiatiche hanno potuto dotarsi di elettrodomestici e di cellulari saccheggiati agli Ucraini di Bakhmut. La dittatura interna e il successo dell’aggressione imperialistica verso l’esterno sono strettamente saldati: stanno e cadono insieme. Questa è la Russia di oggi. Solo una sconfitta esterna potrà incrinare il blocco putiniano, accendendo probabilmente una guerra civile interna alle élite, il cui esito finale non è deterministicamente la democrazia liberale all’europea.
Il putinismo italico
E noi Europei che cosa c’entriamo? Poiché la democrazia non è esportabile, si potrebbe lasciar la Russia nel suo brodo. Invece no. Siamo coinvolti da Putin medesimo, per quanto riguarda il lato estero della sua dittatura. Putin non ha nessuna intenzione di importare la democrazia liberale, vuole semmai esportare “la democrazia russa”, a partire dall’Ucraina fino ai Paesi Baltici e a quelli dell’ex-blocco sovietico.
Ecco perché la tragedia di Navalny ci riguarda politicamente. Il suo assassinio è un delitto contro l’Europa. Esso interroga la nostra politica estera: innalzare le fiaccole al vento e negare agli Ucraini le armi per difendersi è solo ipocrita impotenza, mascherata da sdegno morale.
Ma noi Italiani c’entriamo anche su un versante più ideologico. Le reazioni al delitto politico hanno reso più evidente le striature del blocco ideologico del putinismo italico. Che cosa ha portato Salvini, Conte e un gruppetto di opinionisti italiani a simpatizzare da tempo con Putin fino a sostenere che servono almeno “tre Mattarella per un Putin”?
In primo luogo, un’idea molto grezza e ridotta di democrazia. Se questa consistesse solo nel recarsi alle urne periodicamente, in Russia questo accade. Se, tuttavia, è separazione e check and balance dei poteri e se si fonda sull’Habeas corpus, allora quella russa è semplicemente una dittatura.
Ma forse Salvini arriverebbe a riconoscere questo “difetto” del putinismo. Là dove, invece, vi si identifica pienamente è sul terreno del nazionalismo, del sovranismo, dell’identitarismo, del suprematismo bianco, dell’uso politico della religione, dell’osculazione patetica e pubblicamente esibita di icone, di rosari e di presepi, dell’interpretazione tradizionalista “ortodossa” della morale religiosa.
L’Occidente di Putin e di Kirill è una Sodoma e Gomorra universale, su cui “far piovere dal cielo zolfo e fuoco proveniente dal Signore”, come da Genesi. Si deve poi aggiungere il mito storico dell’Uomo forte, che risolve in un battibaleno i problemi che le estenuate democrazie occidentali rinviano di anno in anno. Certo Putin e Xi Jin Ping il Ponte di Messina lo avrebbero già inaugurato da un decennio!
Solo putinismo? No, anche trumpismo. Perché è comune con Trump da parte di Salvini e Conte l’isolazionismo/sovranismo, inteso come “ciascun Paese faccia i propri interessi” e questo porterà alla pace universale. Questo è ciò che rivela a noi Italiani l’assassinio di Navalny.
Naval’nyj, un eroe greco
A questo eroe antico del nostro tempo presente possiamo solo, noi Italiani, dal basso delle nostre paure, del nostro sonnambulismo, delle nostre piccole viltà, dalla nostra politica teatrale, ipocrita e “caciarona”, noi possiamo, ormai, solo scolpire, ai piedi del suo monumento, una frase del discorso del 431 a. C. che Tucidide attribuisce a Pericle: “Πιστεύομεν ὅτι ἡ εὐδαιμονία ἐστὶν ὁ καρπὸς τῆς ἐλευθερίας, ἡ δὲ ἐλευθερία μόνον τοῦ ἀνδρείου καρπὸς.” Tradotto: “Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma che la libertà sia solo il frutto del coraggio”. È il fondamento del “potere dei senza potere”, di cui scrisse Vaclav Havel in tempi che non passano mai.
Pubblicato su www.santalessandro.org il 20 febbraio 2024
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.