di Alessandro Maran
Ripubblichiamo – ringraziando l’autore – un testo ancora attualissimo, concepito in occasione della istituzione della Giornata del Ricordo delle foibe
Il Parlamento ha istituito la «Giornata del ricordo» dell’esodo, delle foibe e «delle vicende del confine orientale» (dunque, del conflitto nazionale che ha opposto per un intero secolo italiani a sloveni e a croati). Si tratta, ben oltre i limiti del testo approvato, di una assunzione collettiva di responsabilità verso tutto il nostro passato, compreso quello meno glorioso. In altre parole, del tentativo di uscire dalle semplificazioni e dalle omissioni di parte e di conservare la ricostruzione di tutte le responsabilità (maggiori e minori), dandoci una storia che sia di tutti, senza tuttavia rinunciare al discrimine tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, come vorrebbero fare quanti vanno dicendo che, poiché nella lotta antifascista vi furono anche le foibe, allora nessuna delle due cause era migliore dell’altra.
Del resto, l’esempio più eloquente del passo avanti compiuto è costituito proprio dagli esiti di una commissione bilaterale storico-culturale, costituita nel 1993 dai due ministeri degli Affari Esteri, quello italiano e quello sloveno, su sollecitazione di quanti ritenevano che il problema delle foibe non dovesse più continuare a essere una «pietra di inciampo»nei rapporti tra i due popoli. La commissione ha esteso il suo campo di interesse all’arco cronologico che va dal 1880 al 1956 (cioè all’intero periodo in cui si verificarono i più acuti conflitti tra italiani e sloveni) e nel suo rapporto finale, ha affrontato la questione delle foibe del 1945 alla luce delle acquisizioni storiografiche più recenti. Accettando la categoria della «violenza di Stato», si è affermato che arresti, deportazioni e uccisioni «si verificarono in un clima da resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono, in larga misura, il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo».
Il fatto è che la Venezia Giulia, con il suo carattere etnicamente plurale, ha messo alla prova la politica e le istituzioni italiane fin dal 1918 proprio sulla questione del rapporto interetnico e dell’appartenenza statale e nazionale. Gli stessi portavoce degli ideali liberali e democratici, prima ancora che il partito fascista assumesse un’eccezionale consistenza nella regione, avevano definito le minoranze come un problema, a causa della loro «differenza» e avevano suggerito l’assimilazione (forzata) come soluzione. Ma con il crollo del regime fascista, la storia dei campi di concentramento militari per civili e lo sciovinismo che li aveva prodotti furono subito dimenticati, al punto che le vicende del confine orientale e i fatti del tempo di guerra nei «Balcani» non sono diventati, in Italia, parte della storia e della conoscenza generale. Molti studiosi hanno scelto di descrivere gli eventi del Friuli e della Venezia Giulia durante il periodo fra le due guerre, le foibe e le vicende dell’esodo, come periferici rispetto al corso principale della storia e della politica italiana e, addirittura, di far rientrare la lotta fra lo Stato e cittadini italiani di lingua slovena e croata, nella guerra fra l’Italia e le forze comuniste jugoslave. Oggi, dunque, solo con un’assunzione collettiva di responsabilità (proprio perché il trattato di pace non fu una assoluzione per quel che fece l’Italia fascista), le vicende dei profughi istriani possono diventare qualcosa che riguarda tutti gli italiani.
Oltre all’interesse politico (naturalmente la destra è stata attenta a mantenere, anche per la colpevole assenza della sinistra, quella memoria nell’alveo del rancore verso la «imbelle» patria democratica), anche i mezzi di informazione, si sono concentrati soprattutto sul dramma delle foibe, certamente più sanguinoso e sconvolgente. In realtà, tra i due fenomeni, quello di maggiore spessore storico è proprio l’esodo, non solo perché coinvolse un numero di persone incomparabilmente maggiore, ma perché fu proprio l’espulsione della componente italiana dai suoi territori di insediamento storico nella regione istro-quarnerina a segnare una frattura senza precedenti nella storia dell’area alto-adriatica, cancellandovi quasi completamente le tracce di una presenza e di una civiltà che risalivano ai tempi della romanizzazione.
Il forzato abbandono da parte degli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara costituisce infatti un aspetto particolare ed emblematico di un fenomeno più generale che ha travolto in Europa milioni di individui, in quel processo di semplificazione etnica legato all’affermarsi e al ricostruirsi degli Stati nazionali in territori nazionalmente misti, plurali, e che ha distrutto in larga misura le realtà plurilinguistiche e multiculturali esistenti in buona parte dell’Europa centrale. Il fatto che l’espulsione degli italiani sia avvenuta per opera di uno Stato federale fondato su un’ideologia internazionalista, com’era la Jugoslavia comunista, segnala soltanto come la forza delle posizioni nazionaliste sia riuscita, in molti casi, a imporsi agli stessi contenuti ideologici di segno opposto.
Il punto è che lo schema antifascismo-fascismo non è adeguato a comprendere le vicende del confine orientale. In questi anni si infatti diffusa l’idea che esodo e foibe rappresentino un tema che appartiene ad AN, quasi che tutti i profughi siamo stati fascisti. Ancora oggi, ogni discorso che viene proposto da sinistra su questi argomenti finisce per venire interpretato come una proposta di pacificazione o, peggio, di equiparazione fra fascismo e antifascismo.
Ma in questo modo, viene cancellata una componente centrale delle vicende del confine orientale, quella del conflitto nazionale che, per quasi un intero secolo, ha opposto italiani a sloveni e croati. Inoltre, diventa impossibile riflettere su un punto fondamentale, vale a dire su quell’idea etnica di nazione, condivisa dagli uni e dagli altri, che ha reso possibile, prima, la persecuzione da parte del regime fascista degli «alieni» (sloveni e croati), poi, le leggi razziali del 1938 e, infine, la forzata espulsione degli italiani. Ma qui sta la ragione profonda dell’istituzione del «Giorno del ricordo»: alla vigilia dell’allargamento della Ue e della ricongiunzione delle due Europe, è tempo di prendere atto fino in fondo che è cambiato il rapporto tra nazione e Stato; che il problema della nazione non è separabile da quello della cittadinanza e che questa dipende sempre di più dalla crescita e dall’integrazione fra le economie nazionali e i popoli. È questo il legame profondo tra antifascismo, welfare e interdipendenza, che oggi è il «cuore» del progetto europeo.
(«Il nostro passato» – Articolo pubblicato sul Messaggero Veneto, il 23 marzo 2004)