di Dario Parrini
Anche coloro che, come chi scrive, considerano l’elezione diretta del presidente del consiglio, per gli squilibri costituzionali che genera, sufficiente da sola a impedire un’intesa tra maggioranza e opposizione sulla revisione della forma di governo del nostro Paese, hanno a mio avviso il dovere di denunciare, insieme a questa stortura fondamentale, gli ulteriori pesanti squilibri derivanti dagli altri capisaldi del ddl 935 Meloni-Casellati.
Tra queste “abnormità di contorno”, la più evidente è senz’altro data dall’elezione “a strascico” del parlamento. La quale, peraltro connessa all’attribuzione di un premio di maggioranza nazionale alla lista o alle liste collegate al premier eletto, è stata accompagnata dalla decisione di non introdurre tre contrappesi che appaiono indispensabili laddove si immagini di ricorrere all’elezione diretta del vertice del governo. Mi riferisco al quorum della maggioranza assoluta per eleggere il primo ministro (con ballottaggio eventuale a due), a norme costituzionali dirette a combattere l’abuso della decretazione d’urgenza e all’innalzamento per via costituzionale delle soglie utilizzate per modificare i regolamenti parlamentari e per eleggere primari organi di garanzia come il presidente della repubblica e i presidenti delle camere.
Considerate tutte insieme, queste scelte producono esiti innegabilmente allarmanti sul piano dell’equilibrio tra i poteri costituzionali e quindi sul piano della salvaguardia del pluralismo e dei diritti delle minoranze.
Vediamole più da vicino.
Eleggere “a strascico” il parlamento significa svuotarne l’autonomia. In base al ddl 935 il parlamento è eletto “a strascico” (o “a rimorchio”) nel senso che le due elezioni popolari previste (quella per il premier e quella per deputati e senatori) sono non solo contestuali ma anche concatenate e gerarchizzate: una di esse è trainante (l’elezione del premier) e l’altra è trainata (quella dei parlamentari), ciò per far sì che il premier eletto possa contare “in automatico” sulla maggioranza assoluta in Parlamento. Una maggioranza che, essendo formata con le liste bloccate, sarà anche una maggioranza docile nei suoi confronti.
L’elezione del collegio legislativo diventa un accessorio dell’elezione del capo dell’esecutivo.
Se è vero che in nessuna democrazia in cui convivono un presidente della repubblica e un presidente del consiglio quest’ultimo è eletto direttamente, altrettanto vero è che, in nessuna democrazia in cui è presente l’elezione popolare di un presidente con poteri di governo, si ha un’elezione subordinata e non indipendente del parlamento. L’elezione collegata e gerarchizzata del capo del governo e del parlamento è una cosa senza uguali al mondo. Persino nei sistemi presidenziali e semipresidenziali, ovvero quei sistemi ad elevata concentrazione del potere in cui vige l’elezione popolare del capo governo (per esempio il presidenzialismo alla statunitense, in cui una stessa persona è insieme capo del governo e capo dello stato), o di un presidente della repubblica che può essere anche il leader della maggioranza di governo (il semipresidenzialismo alla francese), l’elezione diretta di una carica monocratica nazionale governante incontra un bilanciamento irrinunciabile e direi anche ovvio nella tutela rigorosa dell’autonomia del parlamento: nel presidenzialismo alla statunitense potere esecutivo e potere legislativo sono entrambi forti e reciprocamente indipendenti, e l’elezione dei parlamentari (maggioritaria uninominale a un turno) è un’elezione separata e diversamente scadenzata rispetto all’elezione presidenziale (due anni anziché quattro) sebbene ogni quattro anni coincida temporalmente con quest’ultima. Ciò fa sì che vi sia, ecco il bilanciamento!, la possibilità di una maggioranza in una o in entrambe le camere di colore opposto rispetto al presidente della repubblica (cosa avvenuta otto volte negli ultimi 80 anni: nel 1956. 1968 e 1972 con un presidente repubblicano e una camera democratica; nel 1996 e nel 2012 con un presidente democratico e una camera repubblicana). Nel semipresidenzialismo alla francese, l’elezione della camera politica unica titolare del potere fiduciario (l’Assemblea Nazionale, eletta con sistema maggioritario uninominale a due turni) è un’elezione indipendente da quella presidenziale, anche se, seguendo quest’ultima di due mesi, essa è nella maggior parte dei casi (ma non sempre e comunque! e non automaticamente!) un’elezione producente una maggioranza assoluta parlamentare omogenea rispetto al presidente della repubblica da poco eletto.
Nel sistema francese, e anche questo è un bilanciamento essenziale, può accadere che si insedi un premier di segno politico diverso rispetto al presidente della repubblica, e non esiste alcun automatismo per cui l’approvazione di una mozione di sfiducia al governo provoca di per sé il ricorso ad elezioni anticipate (meccanismo invece introdotto dal ddl 935).
Insomma: se passasse la riforma costituzionale del centrodestra l’Italia diventerebbe l’unica democrazia del pianeta caratterizzata dall’assoggettamento formale del legislativo all’esecutivo a causa dell’intreccio tra l’elezione “a strascico” del legislativo e la codificazione di un finto potere parlamentare di sfiducia (se il parlamento lo esercita, automaticamente muore: il potere di suicidio non è un potere vero).
In conclusione, introdurre l’elezione diretta del premier con queste modalità, senza alcun serio contrappeso, distorce il nostro ordinamento costituzionale con squilibri e rigidità che superano ampiamente la soglia di guardia.
Si crea una forma di governo in cui la competizione per l’incarico di capo dell’esecutivo può essere vinta a minoranza. E chi la vince può prendere tutto o quasi: conquista Palazzo Chigi; conquista la maggioranza assoluta nelle due camere, il potere di schiacciarle tramite un ricorso eccessivo ai decreti legge e alle leggi delega e il potere di determinarne lo scioglimento anticipato a sua discrezione; conquista le presidenze delle due camere e il potere di modificare unilateralmente i regolamenti parlamentari; ridimensiona il capo dello stato perché ha un’investitura di grado superiore e può sceglierne uno di suo gradimento se l’elezione presidenziale si tiene durante il suo mandato di primo ministro; conquista, infine, una supremazia numerica in parlamento così netta da metterlo nelle condizioni di minare l’indipendenza della Corte Costituzionale e del Csm ipotecando la componente di elezione parlamentare di questi organi di garanzia (se ci si pensa anche solo per un momento, si comprende che perché si realizzi una situazione del genere basta che si sommino alla maggioranza pochi volonterosi “soccorritori”).
“Capocrazia” è un termine assai ruvido. Ma per un sistema così fortemente sbilanciato è purtroppo calzante. A scanso di equivoci, vale la pena aggiungere che affermare che un modello del genere va bene perché in gran parte replica la forma di governo che da decenni esiste nei comuni e nelle regioni è una giustificazione che non giustifica praticamente niente. Questa asserzione si basa sul presupposto ampiamente infondato della replicabilità a livello nazionale delle regole sperimentate a partire dal 1993 a livello di istituzioni territoriali. È invece di solare evidenza che il Parlamento non può essere paragonato a un consiglio comunale o a un consiglio regionale, perché tra assemblea legislativa nazionale e assemblee legislative territoriali esistono enormi differenze di competenze, di potere e di status costituzionale: il parlamento è un potere dello Stato, non ha sopra di sé nessun altro ente legislativo ed è investito del potere di revisione costituzionale; elegge un terzo dell’organismo supremo di controllo di costituzionalità delle leggi; elegge il presidente della repubblica (a ben vedere, il fatto stesso che in comuni e regioni non esista l’equivalente del presidente della repubblica è sufficiente di per sé a inficiare radicalmente la tesi della riproducibilità su scala statale della forma di governo comunal-regionale).