di Marco Leonardi
Il punto più debole del governo Meloni è il suo rapporto con l’Europa. Il bagaglio culturale della destra è tradizionalmente intriso di scetticismo verso l’integrazione europea e in più crede nell’assoluto primato della politica. In politica interna e in politica estera, al di là della facciata, non c’è un vero tentativo di compromesso con altre istituzioni o attori sociali, bensì una volontà di imporsi in virtù del consenso elettorale diretto tra leader e popolo. Il tutto è pubblicamente rivendicato come differenza dai governi precedenti che invece vivevano di compromessi ad iniziare dalla loro nascita parlamentare e non elettorale. Tutto quello che Meloni fa in Europa è determinato dal pensiero che magari lei, il suo partito, conteranno di più nella prossima Commissione europea piuttosto che in questa. O perché i suoi voti conteranno per la rielezione di Von der Leyen o perché comunque il suo successo elettorale a giugno la renderà più forte nei confronti degli altri capi di governo attuali. Il ragionamento è che Meloni ha una maggioranza solida e quindi presumibilmente durerà 5 anni mentre Macron e Scholz saranno indeboliti dai risultati elettorali; Sanchez con la sua azzardata alleanza coi separatisti catalani per fare il nuovo governo rischia di fare un brutto risultato alle elezioni europee. A Meloni conviene rimandare tutte le decisioni in EU fino al prossimo Parlamento, fino alla prossima Commissione. (Nel frattempo si coltiva una improbabile alleanza coi paesi africani nel piano Mattei, improbabile finché vissuta quasi come alternativa alla partecipazione al cerchio stretto dell’UE a trazione franco-tedesca.)
Se non fosse così non si spiegherebbe perché in EU sta rimandando tutto: il patto di stabilità, il MES, il PNRR, per non parlare dell’assenza del governo italiano a tutti i tavoli dove si parla già della nuova programmazione dei fondi di coesione e dei fondi per l’agricoltura (che sono insieme la metà del bilancio europeo) quando ci sarà l’accesso dell’Ucraina. Agli altri paesi europei non sfugge che la programmazione dei fondi dovrà essere ben diversa da quella di adesso altrimenti i nuovi membri si prenderebbero tutto, ma l’Italia non partecipa a questo dibattito. Sul MES molti non credevano che l’Italia avrebbe resistito così tanto, unica a non firmare, eppure è così. Sul patto di stabilità l’Italia non sta chiudendo nessun accordo eppure ormai ha perso ogni occasione di alleanza ed è rimasta sola, non importa, non sta firmando lo stesso. Sul PNRR nonostante l’importanza del progetto per l’intera Europa (ma forse proprio per quello), l’Italia, invece di accelerare l’esecuzione e tagliare i rami secchi, pretende una revisione che porterà ulteriori ritardi. Il pensiero anche qui corre ad una nuova Commissione che magari approverà un piano diverso made in Meloni, con investimenti e riforme diverse (niente più balneari e concorrenza). Ad un nuovo consiglio europeo di capi di stato (che alla fine ha una parola decisiva) che alla fine sarà in larghissima parte composto dagli stessi di adesso ma in cui Meloni sarà più forte di prima in virtù dei risultati elettorali.
Che cosa può andare storto? Innanzitutto che appunto nel consiglio dei capi di stato saranno quelli di prima, magari più deboli, ma le opposizioni dei loro governi nazionali non sono meno preoccupate dell’Italia di quanto non lo siano Macron, Scholz e Sanchez. Anzi forse anche di più, i conservatori europei sono più rigidi sui conti pubblici.
E qui veniamo alla seconda cosa che può andare storta. In Europa non ci sono solo i rapporti di forza politici ma ci sono anche i mercati finanziari. I mercati sono pazienti e fiduciosi che l’Italia possa rimanere rispettosa degli equilibri di bilancio ma hanno le loro regole di funzionamento basate sui prezzi. In particolare nello spread Italia-Germania prezzano due cose: il rischio di Euro break up e il rischio di un debito pubblico che diventa insostenibile. Il rischio di euro break up è fortunatamente scomparso dopo le parentesi di Berlusconi 2011 e del governo giallo-verde del 2018, ma il rischio di debito insostenibile no. La regola che si usa è che per esser sostenibile il costo del debito (r) deve essere inferiore al tasso di crescita dell’economia (g). Per il prossimo anno non c’è problema, ma nel medio termine non tutti credono alle promesse della legge di bilancio italiana. Che è stata costruita sulla base che il debito debba scendere seppur di poco nei prossimi anni, ma per ottenere questo risultato si sono messi dei numeri sul saldo primario spesa-entrate implausibili (un surplus primario del 1.9% vuol dire molte più tasse e tagli spesa di cui non si vede traccia, e per quanto potremo sostenerlo?). Anche i numeri della crescita sono abbastanza implausibili (quando mai recentemente abbiamo visto una crescita reale al 1%?) a meno che non ci si appoggi agli effetti benefici del PNRR. Ma anche qui il governo non sta affatto tranquillizzando né i partner europei né i mercati. La revisione del PNRR ha preso un anno intero, non è ancora approvata e nel frattempo ha rallentato l’esecuzione delle opere. Ma soprattutto non è basata su quali opere creano più crescita di altre ma anche questa è frutto di una pura strategia politica: dove sono più forte spendo (il MIT di Salvini), ai più deboli taglio (i comuni).
Professore di economia politica all’università degli Studi di Milano, si occupa di disoccupazione e diseguaglianze. E’ stato tra gli anni 2015 e 2018 membro del comitato tecnico di valutazione della Presidenza del Consiglio e consigliere economico del Presidente Gentiloni. Ha scritto un libro sulle riforme di quegli anni dal titolo “le riforme dimezzate, perché su lavoro e pensioni non si può tornare indietro”, EGEA 2018. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale.