Pubblichiamo l’intervento in dichiarazione di voto del senatore Alessandro Maran nel corso della discussione -tenuta il 14 ottobre scorso – a seguito delle Comunicazioni del presidente del Consiglio dei ministri in vista del Consiglio europeo del 15 e 16 ottobre 2015
Signor presidente, signor presidente del Consiglio, colleghi, i lavori del Consiglio europeo saranno dedicati alla presentazione del lavoro compiuto sul rapporto dei cinque presidenti sul completamento dell’Unione economica e monetaria in vista di un più ampio dibattito al Consiglio europeo di dicembre, al processo in corso in vista del referendum britannico e soprattutto al tema delle migrazioni.
A questo riguardo, il vertice esaminerà l’attuazione degli orientamenti stabiliti nell’incontro del 23 settembre, concorderà ulteriori orientamenti sulle azioni prioritarie all’interno dell’agenda europea per le migrazioni e farà il punto sui risultati della Conferenza sulla rotta Mediterraneo orientale-Balcani occidentali dell’8 ottobre e sui preparativi per il summit di La Valletta dell’11 e 12 novembre prossimi. Il vertice si concluderà con un appuntamento dedicato a Turchia e Siria e la Germania ha chiesto di aggiungere all’agenda la questione dell’Ucraina.
Ecco, la mera lettura dell’agenda del vertice la dice lunghissima sulla stagione che stiamo vivendo, sui nodi che ormai stanno venendo al pettine e su quanto sia intricata la matassa da sbrogliare. A dire vero, la dice lunga anche dell’allegra inconsapevolezza di qualcuno dei nostri colleghi. Bisogna riconoscere che non mancano i passi avanti sul fronte delle migrazioni: come lei ha giustamente rimarcato, i fatti degli ultimi mesi stanno favorendo la convergenza sulle nostre posizioni non soltanto della Commissione europea, ma anche dei nostri partner principali, a cominciare da Germania e Francia, sia sul fronte interno – sul superamento del sistema di Dublino, che deve restare il nostro obiettivo di breve periodo – sia su quello esterno, di più lungo periodo. La dimensione esterna del fenomeno migratorio e dei rifugiati, infatti, sta assumendo nella percezione dell’Unione e dei singoli Stati membri un’importanza crescente.
La comunicazione sul ruolo dell’azione esterna dell’Unione, adottata dalla Commissione il 9 settembre, ricorda che, per affrontare le sfide dettate dalla crisi migratoria e dei rifugiati, occorrono sforzi politici e diplomatici, a cominciare dalla soluzione delle crisi in Siria e in Iraq. Nella sua comunicazione del 23 settembre, la Commissione ha significativamente parlato di un’offensiva diplomatica, fondata su quattro elementi principali: Conferenza d’alto livello sulla rotta Mediterraneo orientale-Balcani occidentali, che si è svolta l’8 ottobre; Conferenza di La Valletta, in programma per l’11 e 12 novembre, come dicevo; maggiore cooperazione operativa con i Paesi terzi; maggiore sostegno alle organizzazioni e agenzie umanitarie.
La Conferenza sulla rotta del Mediterraneo orientale e dei Balcani occidentali è stata un’occasione costruttiva di coordinamento fra l’Unione e tutti i Paesi interessati dalla crisi dei rifugiati. Occorre ora che le azioni concordate siano effettivamente portate avanti, con particolare riguardo alla cooperazione con la Turchia, il cui ruolo è centrale.
Il successo della Conferenza di La Valletta dev’essere per noi una priorità: dobbiamo al più presto passare all’adozione di concreti progetti di sviluppo, anche di iniziativa congiunta da parte di più Stati membri, indirizzati prioritariamente alla mitigazione delle cause profonde dell’immigrazione. In occasione del vertice de La Valletta, potrebbe essere firmato l’accordo istitutivo di un fondo fiduciario di emergenza per l’Africa, che finanzierebbe progetti di sviluppo economico, sicurezza alimentare, gestione dei flussi migratori e governance nelle tre regioni di Sahel, Corno d’Africa e Nord Africa. Al vertice di Malta, l’Unione dovrà sollevare senza remore anche il tema dei rimpatri, componente fondamentale di un rapporto di vero partenariato interno in tema migratorio e l’Italia deve lavorare perché si stabilisca una condizionalità positiva tra questi temi e quelli della promozione della migrazione regolare e della mobilità. La lunga marcia dei profughi siriani e iracheni verso l’Europa e il traffico di esseri umani che dalle coste tripoline fa rotta su Lampedusa e la Sicilia ci ricorda anche – come lei peraltro ha sollevato – che la sicurezza nazionale dell’Italia, compresa quella energetica, non può essere garantita senza una visione geopolitica che abbia nel Mediterraneo il suo naturale fulcro.
Del resto, che l’interesse nazionale del nostro Paese sia la sponda Sud è stato scritto con chiarezza nel libro bianco per la difesa ed è stato confermato anche dalle recenti scoperte di gas a largo dell’Egitto, che impongono all’Italia un ruolo di partner strategico per Il Cairo, dal punto di vista sia politico sia di sicurezza comune. La Regione euro-mediterranea, scrivevamo, rappresenta la principale area di intervento nazionale e raggiungere un elevato grado di stabilità e sviluppo democratico nei Paesi che incidono sul Mediterraneo, costituisce un obiettivo prioritario per il nostro Paese.
Quanto sta avvenendo, bisogna riconoscerlo, e l’agenda dei lavori del Consiglio confermano la validità e la correttezza di questa strategia e la necessità di attuarla fino in fondo. L’agenda del vertice domani, però, ci dice anche che il sistema internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale è ormai irriconoscibile. Con la crescita della Cina e dell’India e la crescente influenza dei non-state actors (che vuol dire mondo degli affari, organizzazioni religiose, tribù, reti criminali), con l’economia globalizzata, il trasferimento di ricchezza e potere economico senza precedenti nella storia moderna quanto a dimensione, velocità e direzione che è in corso dall’Ovest all’Est del mondo, sta emergendo un sistema globale multipolare che è più instabile di quelli che l’hanno preceduto.
E trovo stucchevoli le polemiche sulla politica estera dell’amministrazione americana, perché poco importa se la politica estera degli Stati Uniti ci piace o meno. Quel che davvero conta è che la loro capacità finanziaria di perseguirla va scemando.
Anche il governo degli Stati Uniti è alle prese con l’invecchiamento della popolazione, con un debito enorme, la sanità, le pensioni. É sulla strada di diventare – come è stato detto – una compagnia assicurativa domestica, con una occupazione secondaria, la politica estera. Entro vent’anni il servizio al debito pubblico – tanto per fare un esempio – supererà l’intero budget della Difesa e il risultato sarà una leadership con mezzi molto limitati, anche dopo Obama. E la penuria porterà dei vantaggi agli Stati Uniti e anche agli altri Paesi, perché un’era di risorse scarse renderà il Paese meno incline a commettere errori, dall’espansione della Nato troppo ad Est alla disastrosa occupazione dell’Iraq, senza contare che l’estrazione di idrocarburi non convenzionali, lo shale gas, condurrà ad un cambiamento decisivo nei mercati energetici globali. E una politica centrata sulla riduzione della dipendenza nazionale dal petrolio estero può fare, per l’America e per il mondo odierno, quel che fece il contenimento dell’Unione sovietica nel ventesimo secolo.
Ma meno politica estera negli stati Uniti implica anche una perdita per noi, per i non americani. Quando il mondo lamenta che qualcuno deve fare qualcosa, la reazione più immediata e disinteressata non può più venire da Washington, e anche altre politiche di interesse internazionale, come garantire l’accesso globale al petrolio, possono soffrirne. Ovviamente ci saranno dei limiti al ritiro dal mondo dell’America, ma gli Usa hanno agito per anni come il governo di fatto del mondo e, se ora si comportano come un Paese qualunque, il mondo avrà meno governo.
Dico questo perché in tale contesto un paio di domande all’Europa dobbiamo porle. E un paio di domande dobbiamo rivolgere a noi stessi, perché di questo passo l’arrivo della super potenza europea è probabile che coincida con quello di Godot. Se il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali che svolgeranno il vecchio ruolo degli Stati nel sistema westfaliano; se strutture continentali come l’America e la Cina, e forse l’India e il Brasile, hanno già raggiunto la massa critica, la domanda è molto semplice ed anche brutale: l’Europa ci vuol provare o meno? L’Europa vuol provare ad affrontare la sua transizione a rango di unità regionale? Vuol provare a conseguire finalmente una unità significativa? E non sarebbe ora che gli europei smettessero di eludere il problema della politica di difesa, come Obama ha ripetuto fino alla noia?
E come si fa a non vedere che l’importanza strategica di un accordo transatlantico per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti fra le due aree economiche più avanzate del pianeta va molto oltre la sua valenza economica? E quel che dovrebbe farsi strada è proprio la consapevolezza che in assenza di una nazione democratica sufficientemente forte da essere un punto di riferimento e contrastare le potenze emergenti del capitalismo autoritario, allora un nuovo centro capace di esercitare una funzione ordinatrice può emergere soltanto dall’alleanza globale tra democrazie, cementata da un mercato comune.
Guardate che la definizione di un approccio comune è la più solida garanzia per l’Unione europea e gli Stati Uniti di far valere le proprie priorità rispetto a Mosca, la cui capacità di iniziativa dipende più dalle divisioni del campo occidentale che dall’uso che è in grado di fare delle proprie risorse.
E ora dico una cosa rapidissima sulla Siria. In questo contesto qualcosa si può certamente fare, se si prende atto di come stanno davvero le cose. È nostro interesse eliminare e contenere le due minacce che stanno diventando metastasi: l’Isis, da una parte, e la tragedia dei rifugiati, dall’altra, che rischia di destabilizzare non soltanto l’Unione europea ma anche la Giordania e il Libano. Ma non c’è ragione di credere che l’approccio di chi in ogni occasione non fa che urlare «mirare e puntare fuoco» possa funzionare in Siria meglio di quanto abbia funzionato in Iraq e in Libia. Leggo di gente che non è in grado di mettere in sicurezza la periferia di Baltimora o la periferia di Parigi e pensa di sapere come salvare il centro di Aleppo, dal cielo. È ovviamente una assurdità. E come si fa a non vedere che l’intervento di Putin a difesa di Assad, che rimane un criminale di guerra, pro-iraniano, alawita, sciita, finirà per alienarsi l’intero mondo musulmano sunnita, la stragrande maggioranza anche in Siria. E anche se Putin riuscisse a sconfiggere l’Isis, l’unico modo per mantenere la situazione sotto controllo è sostituire l’Isis con i sunniti moderati. Ma chi volete che si metta con la Russia, se Putin è visto come il difensore di chi ha ucciso più sunniti di chiunque altro al mondo. Anche Putin avrà bisogno dell’aiuto americano e nostro per cavarsela e costruire una soluzione politica in Siria.
Colleghi, l’ancoraggio a sistemi di alleanza con attori più forti in grado di colmare il nostro secolare deficit di sicurezza internazionale è stato per l’Italia la risposta ad una condizione storica di vulnerabilità. Oggi gli Stati Uniti non hanno però più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge il mondo sulle spalle. Gli Stati Uniti non sono più in grado di garantire la funzione di locomotiva economica e garante della sicurezza militare. E una crisi di coesione ancora più preoccupante continua a gravare sull’architrave della politica estera italiana, che è rappresentata dall’Unione europea. Da nessuna parte è scritto che il declino, la decadenza e un minor potere regionale, sia un esito inevitabile. Ma il nostro futuro è necessariamente legato a quello dei nostri partner europei. E proprio dalla consapevolezza di questo comune destino che bisogna far ripartire con più decisione il processo di integrazione europea, il che ci obbligherà a fare di più per rilanciare il processo di unificazione.
È finito il tempo in cui ci si poteva dire al sicuro sotto l’ombrello della Nato e poi manifestare contro i missili a Comiso. Oggi occorre la disponibilità ad assumere rischi ed investire. L’Italia ha i mezzi, la cultura e la potenzialità per farlo e ha recuperato – lei ha ragione, Presidente – la solidità per poterlo fare. Noi ci stiamo provando a cambiare l’Italia e da questo sforzo deriva la nostra rinnovata credibilità. Proprio per questo possiamo provare a cambiare l’Europa, le sue politiche (non solo la governance, certo) e le sue istituzioni.
A dicembre si discuterà della cosiddetta relazione dei cinque Presidenti. Certo, il sistema istituzionale europeo non è il parafulmine su cui scaricare le responsabilità delle decisioni politiche sbagliate. Ma noi che ieri abbiamo votato la riforma della Costituzione, sappiamo che le regole possono condizionare le forme e i modi della politica. Alle difficoltà dell’Europa non è estranea la debolezza delle sue istituzioni: non è l’Unione a far morire i bambini, tuttavia la sua capacità di salvarli è paralizzata da Stati che si rifiutano di coordinare le scelte sull’emergenza migratoria. Non è l’Unione che alza i muri e mette il filo spinato alle frontiere, lo mettono alcuni Stati, ma l’Unione non riesce ad impedirlo perché i poteri di intervento che gli Stati nel loro insieme le hanno conferito non lo consentono.
Se crediamo veramente nel futuro comune di europei, non dobbiamo esitare a rimettere in discussione l’Europa che abbiamo per costruirne una migliore. Il gruppo del Partito democratico sosterrà lo sforzo del Governo – anzi di più, lo sforzo dell’Italia – come si diceva un tempo, senza se e senza ma.