di Stefano Ceccanti
Da oggi si vota tra gli iscritti del Pd.
Per quanto si voglia ragionare di future coalizioni per le elezioni politiche il Pd resta oggi nel Parlamento e nel Paese l’unico perno realistico di un’opposizione alternativa per quando (non credo a breve) avremo questo passaggio che ci dovrebbe liberare dal dannoso Governo bipopulista.
Per questo è importante votare, se iscritti, e invitare poi gli elettori per il passaggio decisivo del 3 marzo.
E’ indubbiamente un Congresso di passaggio per decidere chi ci dovrà guidare soprattutto nel du0lice passaggio delle Europee e di queste amministrative.
Con queste coordinate io credo che i criteri fondamentali devono essere due, al di là anche dei testi e dei singoli candidati.
Un moderno centrosinistra liberale
Il primo è che (almeno per quanto mi riguarda) non si sceglie da soli.
C’è un percorso che è stato fatto nella scorsa legislatura, di un moderno centrosinistra liberale, che si è affermato dopo un lungo periodo di declino, riprendendo le fila del disegno originario del Pd, che ha avuto come punta massima il successo delle europee, per poi cedere il passo con la sconfitta del referendum (che ha purtroppo nuociuto più al Paese che non al Pd) e con quella delle Politiche.
Il filo va ritessuto, con umiltà ma certo senza abiure, perché spesso un certo modo di invocare discontinuità esprime di fatto soprattutto volontà di restaurazione, e senza considerare quindi quella legislatura una parentesi per tornare a identità comunque consunte.
Le persone con cui questo cammino si è intrecciato stanno quasi tutte in due mozioni: in grande maggioranza in quella di Maurizio Martina (che nei giorni scorsi ha visto formalizzare Simona Malpezzi come portavoce e Tommaso Nannicini come responsabile) e in una significativa minoranza in quella di Roberto Giachetti e Anna Ascani. Massimo rispetto e simpatia per chi sceglie questi ultimi, però penso si debbano concentrare gli sforzi nella direzione collettiva che ha maggiore capacità espansiva.
La vocazione maggioritaria
Il secondo criterio è che in un sistema friabile, anche perché a dominante proporzionale, va comunque riaffermata la vocazione maggioritaria, la capacità di parlare a tutto il Paese, evitando di scomporre il Pd in pezzi diversi che poi si dovrebbero paradossalmente alleare.
Il Pd deve restare non solo con la sua sigla ma anche con la sua sostanza, con l’ambizione originaria riscoperta dopo il 2013. Questo criterio comporta una leadership inclusiva, che non faciliti fratture, anche non volendo, che sia percepita, anche per l’arco dei sostegni, come effettivamente plurale e non solo di un pezzo del Pd, fosse anche la sua componente più grande per tradizione e radicamento. Una leadership e un lavoro collettivo tipico di una fase di passaggio. Anche qui il criterio converge verso la mozione Martina.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.