di Antonio Gaudioso
In questi giorni impazzano le discussioni sulla differenza tra il “modello veneto” ed il “modello lombardo” nella gestione dell’emergenza coronavirus.
Al di là delle strumentalizzazioni, delle partigianerie e dei commenti più o meno (spesso meno) informati che si sentono può essere utile fare qualche considerazione per prendere decisioni sul futuro che partano da fatti e non da opinioni.
Veneto e Lombardia sono regioni governate da circa trenta anni dallo stesso colore politico, sono economicamente forti e anche per l’erogazione dei servizi sanitari sono state sempre considerate al top nel nostro paese. Hanno però fatto scelte negli ultimi anni completamente diverse sulla erogazione dei servizi sanitari.
La Lombardia teorizzando e mettendo in pratica un modello con una forte presenza dei servizi sanitari privati/convenzionati da affiancare al servizio pubblico (ospedali di buona qualità con alcune punte di assoluta eccellenza) con “gli ospedali al centro” e il Veneto con un modello più tradizionale con presenza forte del servizio pubblico nelle strutture ospedaliere e una maggiore capillarità dei servizi sul territorio.
Due visioni non solo differenti ma sostanzialmente opposte che hanno portato ai risultati che stiamo vedendo.
In una situazione come quella di emergenza che stiamo vivendo i medici di famiglia, i pediatri, i farmacisti sono con ruoli diversi “l’argine” per aiutare a individuare chi è infetto, per impedire che vada in ospedale quando non è necessario, per aiutare i malati cronici, rari, le persone immunodepresse a essere curate a casa perché sono quelle più a rischio.
Il Veneto, con tutte le difficoltà nell’affrontare una situazione inedita, con il proprio modello ha fronteggiato e gestito la situazione mentre la Lombardia ha dimostrato gli enormi limiti delle proprie scelte soprattutto con servizi territoriali rarefatti, con enormi difficoltà come spesso denunciato in questi giorni dei medici di famiglia e con un modello “basato sulle strutture” che ha affrontato il disastro delle residenze sanitarie per anziani vedendo morire le persone senza avere una vera alternativa come può e deve essere in queste situazioni poter curare a casa.
I casi di queste due regioni sono emblematici ma non isolati, anzi la situazione in molte aree del nostro paese è molto peggiore.
Negli ultimi venti anni si è investito molto poco sul territorio, in molte regioni i medici di famiglia sono diminuiti perché andati in pensione e non sostituiti, idem per i pediatri, l’assistenza domiciliare non ha standard e spesso è inesistente, i servizi di prevenzione territoriali si sono ridotti per mancanza di risorse economiche e umane disponibili causa blocco del turn over.
Chi soffre di più sono le persone che abitano nelle cosiddette “aree interne”, zone di collina e montagna dove abitano circa undici milioni di italiani che comunemente identifichiamo con i “borghi” tanto decantati come meta per i weekend quanto dimenticati nelle politiche pubbliche nel resto della settimana.
Siamo condannati al disastro? No che non lo siamo. Dipende da noi, dalle scelte che faremo, dalle priorità che ci daremo. Prendersi cura, personalizzare le cure, vuol dire adattare i modelli ai bisogni delle persone e non vice versa. Fare un serio piano di investimenti sia tecnologici (vedi alla voce telemedicina che in Italia non si usa perché da 20 anni non si è attivata la modalità tecnica per la codifica burocratica della prestazione…) ma anche infrastrutturali (perché se non hai una banda larga seria tutta una serie di servizi sanitari ad alta tecnologia non li puoi usare).
Investire sui professionisti che vivono e operano sul territorio responsabilizzandoli. Nella ultima legge di stabilità sono stati fatti dei primi passi dotando medici di famiglia e pediatri di prime apparecchiature di diagnostica e facendo partire la “farmacia dei servizi” che avrà il compito di semplificare ed erogare una serie di servizi “a portata di famiglia”.
Passi giusti nella giusta direzione ma non bastano. Bisogna fare di più. In queste ore è in discussione al Senato una proposta di emendamento al “Cura Italia” proposto da Cittadinanzattiva e da oltre settanta organizzazioni del mondo civico, medico, delle professioni sanitarie, delle imprese e raccolto da un gruppo di senatori (prima firma Nannicini ma con senatori di Pd, M5S, Leu, IV, Forza Italia e gruppo misto) che ha l’obiettivo di creare un fondo vincolato di 1,2 miliardi di euro divisi su tre anni che sia dedicato all’assistenza domiciliare.
Se approvata questa norma avrebbe tre meriti, il primo in quanto fondo vincolato sapremmo che sarebbe speso solo per questa finalità evitando che si “perda per strada” nei rivoli delle risorse pubbliche destinate alle regioni, il secondo che permetterebbe concretamente di aiutare ad assistere le persone a casa con i servizi realizzati dalle tante competenze che già ci sono e che in questo settore operano sia pubbliche che private che no profit, il terzo e forse più importante merito sarebbe quello di fare una prima scelta strategica sul “futuro che vogliamo” con servizi che si adattino ai bisogni delle persone e ne rispettino il diritto alla cura.
Magari scopriremmo che #iorestoacasa e #primalepersone non sono solo hashtag ma sono una occasione per ripensare le priorità del nostro stato sociale.
Dal 2012 è il segretario generale di Cittadinanzattiva, organizzazione in cui milita da oltre vent’anni. Ha contribuito alla creazione del PiT Salute, il servizio gratuito promosso dal Tribunale per i diritti del malato. Animatore del Gruppo di Frascati per la responsabilità sociale di impresa, ha partecipato alla stesura della Carta Europea dei diritti del malato e alla creazione del Coordinamento nazionale delle Associazioni dei malati cronici