LibertàEguale

L’opzione socialdemocratica del Pd e la debolezza dei liberalsocialisti

di Danilo Di Matteo

 

Ancora una volta traggo uno spunto prezioso dall’Avanti!, a commento del Congresso della Uil. “Non lasciare indietro nessuno, non lasciare solo nessuno”, ecco l’essenza del socialismo democratico e liberale. Come provare a realizzare tale obiettivo?

La risposta proviene dal luminoso contributo di Michele Salvati. Condivido ogni passaggio, ogni riga. Coniugare la crescita con l’equa redistribuzione delle risorse rappresenta il metodo più efficace per non mortificare la prima e per indirizzarla verso la giustizia sociale. E ciò acquista ancora più valore in una fase di crisi internazionale dai mille volti: economico, ecologico, sanitario, militare.

La seconda parte della frase – “non lasciare solo nessuno” – ha una valenza ancora più estesa e generale della prima. Vuol dire ad esempio non umiliare coloro che si impegnano e ottengono risultati (i “meriti”), lasciandoli in balia di sé stessi. E ha a che fare con le strategie volte a far sentire ciascuno meno solo: l’immigrato (magari di seconda o di terza generazione), ad esempio, oppure la persona con un orientamento sessuale o un’identità di genere diversi da quelli più frequenti, o individui e gruppi che esprimono un credo religioso non conforme a quello più diffuso. Per non dire dei malati o dei disabili.

Si tratta di questioni con le quali la socialdemocrazia (le socialdemocrazie) si confrontano ormai da decenni, con risultati talora lusinghieri, talaltra pessimi o mediocri. Non solo; da non economista e da non esperto di politica economica, so comunque che è un po’ più facile conciliare le ragioni dello sviluppo con quelle dell’equità nei periodi di vacche grasse. Se c’è stagnazione o recessione anche la proposta più cauta e ponderata di redistribuzione della ricchezza può evocare il fantasma (il celebre spettro indicato all’inizio del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels) dell’esproprio.

Sul piano culturale, poi, Salvati tocca argomenti cruciali. Le posizioni liberalsocialiste, ad esempio, hanno avuto una funzione maieutica rispetto al Partito democratico, rimanendo tuttavia minoritarie o marginali. Spesso si nota come su di esse abbiano avuto la meglio la tradizione (post)comunista e quella (post)democristiana. Aggiungerei dell’altro: come già nel Pds, anche nel Pd si tende a declinare l’idea di sinistra ora verso i temi etici e le libertà dei singoli, colme naturalmente di risvolti sociali (il “partito radicale di massa” di cui parlava ad esempio il filosofo Augusto Del Noce), ora verso una visione “cattolicheggiante”, quasi “neoguelfa”, favorita negli ultimi anni dalle aperture e dalla lucidità di papa Francesco.

Ecco, si tratta di tendenze che tradiscono proprio la debolezza, anche nel Pd, della cultura liberalsocialista, pur spesso a parole richiamata, e più in generale socialdemocratica. Debolezza a sua volta accentuata, così a me sembra, dalla dispersione in mille rivoli di coloro che a essa si rifanno. Non mi riferisco tanto agli eredi del Psi e alla loro diaspora, quanto agli stessi pensatori di matrice liberalsocialista. Collocati su posizioni dissimili, se non opposte, rispetto a temi dirimenti come la pace e la guerra, le scelte di politica economica, la sostenibilità ambientale e così via. 

E qui c’è da lavorare e da costruire, nella consapevolezza che di un percorso in salita si tratta.

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