di Claudio Petruccioli
Luigi Covatta è stato per me innanzitutto un coetaneo; un ventenne degli anni ’60 che precedeva, però, di qualche anno, la generazione dei baby boomer: quella che farà il ’68 mentre noi, appena un po’ più vecchi ma con ricordi più vivi degli strascichi della guerra, pur testimoni e variamente coinvolti non fummo protagonisti di quel sommovimento. Una differenza non da poco, forse all’origine di una sensazione che ci ha accompagnato nel corso della vita: di trovarci – pur apprezzati, utilizzati, impegnati e disciplinati – in una specie di “terra di nessuno”.
Sono convinto che la nostra amicizia, iniziata nei primi anni ’60 nell’arena della politica e delle associazioni universitarie, si sia nutrita di questa sensazione dovuta alla contiguità anagrafica. Non molto tempo fa Luigi mi ha ricordato che per mio “merito” (o “colpa”, aggiunse subito con l’incontrollabile ironia che gli era propria) diventò segretario dell’Intesa universitaria. Per la prima volta un comunista (ero io) era entrato nella giunta dell’UNURI, una sorta di governo espresso dalla rappresentanza nazionale degli universitari. Allora venivano considerate, anche nel mondo politico ufficiale, cose serie – e in una certa misura lo erano davvero. Si era agli esordi del centro-sinistra “organico” come si diceva e la novità contro corrente fece scandalo. La potente FUCI si schierò contro; ma la Fuci di Milano, dove era Luigi, si differenziò. Quando prevalse anche nelle organizzazioni giovanili cattoliche (furono riunite tutte insieme in una megaassemblea a Grottaferrata) una posizione che difendeva la giunta dell’UNURI in nome dell’autonomia, fu lui a diventare segretario dell’Intesa in sostituzione di Ugo Trivellato. Siamo alla fine del ’63-inizio ’64; Gigi aveva vent’anni.
Per Luigi Covatta non trovo definizione più precisa, più degna di lui che quella di “riformista”. Lui stesso la suggerisce e la impone dalle pagine del suo libro più significativo, rivelatore già nel titolo: Menscevichi. “Alla ricerca del riformismo” – l’ultimo capitolo – si arriva dopo un florilegio di titoli e sottotitoli che battono sempre sullo stesso –tasto; e cuciono con un filo rosso le pagine che raccontano come Gigi ha vissuto e ha partecipato alla politica della Repubblica. Eccoli i titoli, alla rinfusa: “le riforme senza i riformisti”, “riformisti in cerca di se stessi”, “il riformismo illuminista”, “il riformismo difficile”, “la chiacchiera sul riformismo”.
Luigi aveva e ha mostrato sempre al massimo grado tutti i caratteri che fanno il vero riformista. La coerenza, severa prima di tutto con se stesso, unita alla tenacia, a rischio di risultare testardo; non per la presunzione di avere ragione, ma per l’esatto opposto: per voler rendere conto di tutto, per il rifiuto assoluto di nascondere o sottovalutare qualcosa di irrisolto, cedendo all’opportunismo del “poi le cose si sistemeranno”.
Luigi è stato un limpido, tagliente riformista perché ogni sua scelta, ogni sua argomentazione sono il contrario dell’opportunismo. Nelle vulgate correnti – e non solo nelle peggiori – riformismo e opportunismo (se si vuole spirito di adattamento o di rinuncia) sono accoppiati con disinvoltura, quasi una ovvietà. Luigi Covatta ha insegnato e dimostrato il contrario: riformismo e opportunismo sono incompatibili.
Il riformismo obbliga a rigorose dimostrazioni e verifiche; la sua necessità e la sua possibilità non possono essere affidate ad atti di fede o a speranze immotivate. Luigi ha tenuto in gran conto questo postulato, fino al punto da interrogarsi con amarezza sulla possibilità stessa del riformismo, in particolare di fronte ad alcuni passaggi complicati della nostra storia repubblicana. Ma da questa amarezza Luigi non è mai passato al pessimismo, grazie ad un’altra dote essenziale del riformista: l’esatta presa di coscienza della realtà in cui agisce. Il riformista non se la racconta, non deve, non vuole raccontarsela: mai.
Così è stato Gigi: ha sempre argomentato, senza alzare la voce; ha sempre agito senza colpi di testa. Con i piedi per terra e con la massima attenzione alla realtà politica come si presentava nel momento dato; anche quando ha coltivato speranze che si mostreranno illusorie o progetti che resteranno incompiuti. E’ stato così fin dalle esperienze iniziali dell’associazionismo cattolico, la FUCI e l’Intesa universitaria, le Acli; poi con l’Acpol di Livio Labor, per trovare risposte alle forti domande di innovazione che si erano manifestate nel biennio ‘68/’69. Infine con l’approdo nel Partito socialista nel quale – con tutti i limiti e le difficoltà che si possono evocare – individuò giustamente il più importante e promettente giacimento e laboratorio del riformismo in Italia.
Queste tappe sono legate non dall’inseguimento di un ideale generoso quanto si vuole ma indefinito; no, Covatta ha pensato e cercato un riformismo adulto, vincente, senza integralismi e chiusure partigiane, meno che mai settarie. “Non c’è bisogno di giurare sull’integralismo di Dossetti – sono parole sue nel capitolo dal titolo spiritoso “il monaco riformista” nel quale esalta la originalità e la robustezza del riformismo che Cafagna definisce catto-keynesiano – per sostenere che il dossettismo è stato alla DC come l’azionismo al Psi”.
Il suo orizzonte è ampio, non condizionato da confini o schemi di partito; il suo sguardo e la sua analisi diventano tanto più acuti ed esigenti dove e quando ravvisa una concentrazione significativa delle risorse utili per il riformismo. Lì diventa circospetto nell’indicare i fattori spuri le insidie, come l’integralismo; addirittura spietato, poi, nel denunciare la minaccia di quello che considera il peggior nemico del riformismo: il doroteismo che avverte diffuso ben oltre i confini dell’aggregato democristiano per il quale fu coniato il termine.
In un capitolo intitolato “l’autoriforma mancata” fissa l’attenzione sul momento più alto e promettente della vicenda del Psi: il 1983, dopo il convegno di Rimini di cui fu attento organizzatore e relatore, con Craxi alla guida del governo nazionale. Per chiarire cosa intenda ricorre all’alternativa formulata da Federico Coen, il direttore nella stagione d’oro di mondoperaio, gloriosa testata che Covatta ha fatto dignitosamente rivivere. Eccola l’alternativa che Luigi individua al culmine della parabola politica del Psi: “impegnarsi a costruire un partito nuovo e fuori dalle antiche servitù ideologiche… mettendo in crisi l’egemonia di un Partito comunista impotente a rinnovarsi sul serio… o proporre il Psi come garante hic et nunc della governabilità in ragione della sua collocazione chiave nello schieramento politico italiano”.
In termini più generali, teorici e perfino etici, Luigi torna sull’argomento avendo come mentore, questa volta, un altro dei suoi riferimenti fissi, Gino Giugni. “Il riformismo nella sua versione classica non è una vera alternativa all’utopia del dominio sulla storia; è soprattutto una variante di metodo rispetto al metodo rivoluzionario, tant’è vero che, al di là delle contumelie contro il rinnegato Kautsky, l’unico vero eretico del socialismo novecentesco fu Bernstein, la cui verità venne rapidamente occultata”.
Ricorda, poi, con Bobbio, che “la stella polare del socialismo esiste sempre e si chiama giustizia sociale; sottolinea infine che “quasi tutto il riformismo è confluito nel Psi mentre d’altra parte né La Malfa (gli azionisti) né Fanfani (i dossettiani) né Amendola (i riformisti del Pci) sono riusciti a costruire alternative convincenti”. Il Psi è stato, dunque un “grande crocevia culturale” (ancora Giugni) “il crogiuolo non il contenitore neutro di tanti riformismi” precisa Covatta.
Adesso che il Psi non c’è più, conclude Luigi, c’è tuttavia ancora bisogno di un “grande crocevia culturale, che tiene sempre presente la stella polare. Senza la stella polare del socialismo – insiste – il riformismo italiano resterà l’insieme del materiale di risulta prodotto dal crollo dei pilastri del vecchio sistema”.
Già! Ma cosa è la “stella polare”? La “giustizia sociale di Bobbio”? La storia e la funzione del Psi esaltate da Covatta? E’ vero, il riformismo non deve mai dimenticare questi riferimenti, questi richiami. Ma dire che senza la stella polare del socialismo il riformismo non può prendere corpo comporta il rischio che la verità di Bernstein sia occultata una volta di più.
Di questo Gigi ed io abbiamo tante volte discusso e con particolare intensità in lunghissime telefonate durante il crudele lockdown che ha interrotto l’abitudine a frequentarci ma non il bisogno di comunicare. Sono gli argomenti che Gigi ha affrontato più volte anche qui, a LibertàEguale. Si è interessato e poi ha partecipato con intensità e passione alla vita di questa associazione, anche qui alla ricerca del riformismo, insieme con tutti noi e accanto al suo grande amico e maestro Luciano Cafagna che abbiamo avuto l’onore di avere come primo presidente.
Rievocando il periodo della esperienza Acpol, Luigi ha osservato con tristezza: “Amendola diffidava della sinistra cattolica, e non amava neanche la sinistra socialista di Lombardi. Labor, a sua volta, diffidava dei riformisti laici, e nel Pci era piuttosto affascinato dalle inquietudini di Pietro Ingrao. Sta di fatto che ancora una volta i riformisti italiani erano dispersi, e faticavano addirittura a riconoscersi”.
Con lo stesso fondamento e lo stesso rammarico possiamo oggi dire che i riformisti devono innanzitutto riconoscersi e riconoscere le loro diversità; su questa base unirsi, con l’obiettivo altrimenti irraggiungibile di tradurre “la domanda di democrazia e di giustizia sociale in programmi politici”. Sono parole di Gino Giugno che Covatta pone a conclusione del suo Menscevichi; mi sembra riassumano perfettamente anche la ragione per cui esiste LibertàEguale.
L’elogio di Luigi Covatta è tutt’uno con l’elogio del riformismo. Il che ci dice quanto abbiamo perso con la sua morte; ma dice anche che l’esperienza e le riflessioni di Gigi restano e resteranno vive e stimolanti. Con noi e per noi finché ci saremo; e sempre, fin quando ci saranno persone che cercano, pensano, vogliono il riformismo.