LibertàEguale

Lunga vita al Partito (Social-)Democratico

Foto Mauro Scrobogna/LaPresse 23-09-2022 Roma (Italia) Politica - Elezioni - chiusura della campagna elettorale del Partito Democratico - Nella foto: la manifestazione PD in Piazza Del Popolo 09-23-2022 Rome (Italy) Politics - Elections - closing of the electoral campaign of the Democratic Party - In the photo: the PD rally in Piazza del Popolo

di Michele Salvati

 

È essenziale capire le origini della crisi del Partito democratico. Ce ne sono tante, ma la principale è la debole definizione della sua identità politica. Scioglierlo non sarebbe una soluzione

Stanno circolando voci insistenti che auspicano lo “scioglimento” del Partito democratico. Sono voci irrealistiche e profondamente sbagliate, se l’intenzione di chi le diffonde fosse veramente quella di far rinascere il centrosinistra. Irrealistiche perché sottovalutano la forza dei legami, nobili e meno nobili, che tengono insieme il partito. Sbagliate perché da uno scioglimento del Pd il centrosinistra uscirebbe fortemente indebolito. Che cosa avverrebbe se il Pd “si sciogliesse” e i suoi resti, i suoi elettori, si dividessero tra altri partiti (di destra, o tra concorrenti di sinistra come 5 Stelle e Terzo Polo)? Oppure se andassero a rafforzare il più grande “partito” oggi esistente, quello dell’astensione? Tornerò alla fine su questo interrogativo. Di seguito vorrei sommariamente descrivere alcune convinzioni che ho maturato in più di trent’anni di partecipazione intensa alla vita politica e intellettuale della sinistra italiana. Considerare un periodo così lungo è essenziale per capire le origini della crisi del Partito democratico. Ce ne sono tante, ma la principale è, a mio avviso, la debole definizione della sua identità politica.

Nell’agosto dell’89, con Salvatore Veca, pubblicammo su “Rinascita”, la rivista teorica del Pci, un articolo in cui sostenevamo l’urgenza di cambiare il nome del partito prima che l’Unione Sovietica crollasse, al fine di non disperdere una parte importante della sinistra italiana, che poteva essere riconvertita a un orientamento politico non comunista, quello che di fatto il Pci già sosteneva. Dunque, un atteggiamento di conservazione e indirizzo delle forze esistenti, che allora richiedeva uno strappo, una “svolta”, un necessario mutamento di nome, che rendesse evidente il distacco da una concezione marxista dello sviluppo storico. Partecipando alla discussione seguita alla Bolognina e divampata per anni nel partito, mi accorsi però ben presto che il nome che avevamo proposto (Partito democratico della sinistra) in realtà era stato accettato perché evitava ogni riferimento esplicito alla socialdemocrazia, la versione del socialismo di origine marxista che era prevalsa nel confronto col comunismo nell’Europa continentale. Insomma, il nome fu adottato per la sua involontaria ambiguità. La superiorità del comunismo sulla socialdemocrazia, descritta come sostenitrice di un riformismo troppo debole e non finalizzato a una uscita dal capitalismo, era un punto fermo ancora presente tra molti dirigenti e una parte della base che nel passato aveva aderito al Partito comunista.

La vicenda di Mani Pulite tolse poi di mezzo – vado molto veloce – il Partito socialista e con questo anche un chiaro riferimento identitario socialdemocratico. L’Ulivo si limitò così a una coalizione di ex comunisti e ex democristiani di sinistra, senza una ben definita identità politica, senza quella sensibilità a “meriti e bisogni” che un partito socialista avrebbe potuto dargli. È per questa ragione di fondo che cominciò a prender corpo, sia nella componente ex democristiana sia in quella ex comunista dell’Ulivo, l’esigenza di concludere la transizione arrivando a un vero partito con una identità più netta: non erano solo i resti, purtroppo dispersi, del Partito socialista ad auspicarlo, ma era ormai anche un’altra grande corrente sotterranea del socialismo italiano, il socialismo liberale, a muovere nella stessa direzione.

A queste influenze si aggiunsero diversi orientamenti culturali, due soprattutto. Uno di origine liberale – si era nel contesto del grande dibattito sulle teorie della giustizia – e l’altro cattolico-solidaristico, e una sintesi teorica rigorosa non fu mai raggiunta. Di seguito, prendendo per semplicità una parte per il tutto, mi riferirò alla tradizione socialdemocratica, sia perché è questa che di fatto predominava in Europa; sia perché è quella in cui i due obiettivi/compiti che dovrebbe porsi il Partito democratico, e le difficoltà di raggiungerli, si vedono con maggior chiarezza. Innanzitutto, la rinuncia all’obiettivo di trasformazione rivoluzionaria del sistema economico-sociale, non solo per l’impossibilità di raggiungerlo, ma per una convinta adesione ai principi essenziali del liberalismo. E, insieme, la convinzione di riuscire a modificare, attraverso una continua pressione per le riforme (“il movimento è tutto”), le tendenze alla diseguaglianza insite nel capitalismo e nel liberalismo conservatore. Dunque, adesione ai principi liberali, economia di mercato opportunamente regolata e continua spinta verso una maggiore uguaglianza di condizioni economiche, sociali e culturali, dovrebbero essere i principi base del Partito (social-)democratico.

Nella componente ex comunista dell’Ulivo chi si mostrò più sensibile alle necessità del Partito democratico fu Walter Veltroni, anche se influenzato da analogie americane discutibili; in quella ex democristiana furono Arturo Parisi e Nino Andreatta, una grande personalità politica, purtroppo colpito da un ictus paralizzante nel dicembre del 2000. Il progetto del Partito democratico incontrò ostacoli e rallentamenti sui quali qui non posso dilungarmi e diventò realtà solo nel 2007, troppo tardi, minato da dissensi interni che poi produssero le scissioni che tuttora perdurano.

Eravamo infatti ormai fuori tempo, agli sgoccioli della grande fase socialdemocratica europea. La globalizzazione, congiunta a una rivoluzione tecnologica sfavorevole per i lavoratori meno qualificati, insidiava le condizioni di sicurezza e benessere di segmenti sempre più ampi dei lavoratori europei. In questo contesto, promossa e favorita da una fase politica internazionale neoliberista, la socialdemocrazia entrò in sofferenza (anche per errori di strategia politica) e i ceti più svantaggiati iniziarono a rivolgersi a imprenditori politici che li attraevano con promesse elettorali che non erano in grado di mantenere, alimentando il loro risentimento verso nemici presunti (tipicamente gli immigrati), sollecitando un pericoloso nazionalismo e un’ostilità verso l’Unione europea solo parzialmente giustificata dalle politiche di austerità perseguite dopo la crisi economica del 2007/2008.

Se a questi fattori di difficoltà, che si manifestarono già a partire dagli anni Ottanta, aggiungiamo oggi la necessità di trovare risorse per mitigare la crisi ambientale e per affrontare la minaccia pandemica, in un contesto in cui è in corso l’aggressione militare russa all’Ucraina, ci possiamo rendere conto della difficoltà della situazione in cui la sinistra europea si trova. Queste difficoltà, oltretutto, non colpiscono solo partiti e governi socialdemocratici, ma anche i partiti liberal-conservatori “tradizionali”, quelli prevalenti sino alla fine del secolo e fortemente avversi a movimenti o influenze etno-nazionalistiche. Oggi la diga liberal-democratica e repubblicana o è crollata o rischia di crollare. Il Partito socialista francese è quasi estinto, i gollisti non se la passano molto meglio e il cordone sanitario contro populismo e destre estreme ha ceduto in Svizzera, consentendo la vittoria della destra e in particolare di un partito, necessario alla sopravvivenza di governo, di natura etno-nazionalista. Se questo è avvenuto nella patria della socialdemocrazia, la situazione italiana – dove lo “sdoganamento” di movimenti e partiti nazionalisti, populisti e sovranisti è un fatto da tempo acquisito – non può essere vista come del tutto eccezionale.

Non del tutto, ma eccezionale lo è per la gravità della crisi economica, sociale e istituzionale del nostro Paese. I suoi ceti dirigenti, nei vent’anni finali della Prima Repubblica, non avevano attrezzato l’Italia alle più difficili condizioni che avrebbe affrontato in un contesto internazionale neoliberista. Ed è stata infettata dal virus populista prima e più intensamente dei Paesi con i quali ci confrontiamo: una crisi di regime come quella dei primi anni Novanta (Mani Pulite e Berlusconi) è sconosciuta tra i Paesi dell’occidente europeo. Il sistema politico che ne è emerso è stato poi incapace di auto-sostenersi in un’economia sempre più aperta e finanziarizzata, e dunque soggetta allo scrutinio dei mercati internazionali. In un tale contesto, il sistema politico ha dovuto ricorrere a “tecnici” estranei alla politica in numerose occasioni: Ciampi, Dini, Monti, Draghi, per menzionare solo coloro che hanno svolto il ruolo, politicissimo, di capo del governo. Incapace di perseguire nel tempo politiche coerenti ed efficaci, l’Italia è diventata sempre più povera: è da più di vent’anni che il reddito reale pro-capite non cresce, situazione unica in questo angolo di mondo benestante.

Invece di restare unito di fronte alle avversità e cercare una via per tenere insieme una sostenuta crescita economica e il maggior benessere (o il minor malessere) possibile per le fasce più deboli della popolazione, il Pd si è diviso tra una componente più attenta (diciamo così) alla prima parte del compito (efficienza del sistema e della crescita economica) e una “più attenta” (continuiamo a dire così) alle condizioni di disagio e sofferenza dei ceti più poveri, quelli che un tempo votavano a sinistra e oggi sono maggiormente attratti da un messaggio politico populista. Parti importanti di queste due componenti hanno formato partiti autonomi, che hanno logiche evidenti di auto-affermazione organizzativa ed entrambe cercano spazio a spese del Partito democratico, perché è molto difficile trovarlo nel campo delle destre. Questa è la disgraziata situazione nella quale si trova il “campo largo” della sinistra democratica italiana.

Ora, sembra a me evidente che i due obiettivi/compiti di cui dicevo dovrebbero essere assolti insieme e dallo stesso partito.

(a) Non si può distribuire ciò che non si riesce a produrre, a meno di aumentare ulteriormente il nostro gigantesco debito pubblico, ciò che è molto difficile nel sistema economico-politico internazionale in cui siamo inseriti: di qui la necessità di misure che favoriscano la solidità e la competitività dell’apparato produttivo privato e risolvano i problemi che compromettono l’efficienza dei nostri apparati pubblici.

(b) Si devono promuovere misure economiche, sociali e istituzionali che favoriscano i ceti più deboli della popolazione, anche a spese dei gruppi sociali più agiati, ciò che sarebbe molto più facile se ci fosse crescita economica. Questa è anche una tesi sostenuta nel recentissimo libro di Carlo Trigilia, La sfida delle disuguaglianze. Contro il declino della sinistra.

Il fallimento più grave del Partito democratico (insieme a quello di aver creato gruppi di potere per i quali le questioni programmatiche sono questioni di second’ordine, e dunque disposti a mutare opinione a seconda delle convenienze) mi sembra sia stato quello di non essere riuscito a creare un clima interno che favorisse un continuo colloquio e scambio tra i sostenitori dei due obiettivi, dei due compiti che definiscono la stessa identità socialdemocratica. La soluzione non può certo essere cercata in un definitivo scioglimento del partito, e per conseguenza in una perdurante separazione politico-organizzativa tra chi sottolinea maggiormente l’uno o l’altro dei due obiettivi. E neppure può essere cercata, se il Pd sopravvive, in una prevalenza sistematica e permanente di un obiettivo sull’altro. Va cercata in una profonda riorganizzazione interna, guidata da una chiara e condivisa identità socialdemocratica e da un’analisi approfondita delle difficoltà che un partito caratterizzato da questa identità deve affrontare nel caso italiano. In via generale, per tutti i Paesi economicamente avanzati retti da regimi politici liberal-democratici, insieme a Norberto Dilmore, abbiamo cercato di dare qualche suggerimento e qualche esempio concreto in proposito in Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo. Per il caso italiano – non sulle policies da perseguire, ma sulla ri-organizzazione interna auspicabile dell’attuale Partito democratico – ho trovato stimolante e ricco di suggerimenti dettagliati il ​​saggio di Andrea Ruggeri (Riorganizzare il Pd per riformarne la politica), uscito qui online l’11 ottobre scorso.

Restano due problemi, entrambi gravi. Il primo è questo: che cosa fare se i buoi sono già scappati? Fuor di metafora, se le due componenti – e con esse gli obiettivi che definiscono l’identità di un partito socialdemocratico – si sono già divise in partiti politici autonomi, inevitabilmente concorrenti con il partito madre? È certo possibile che l’una o l’altra rientri nel Pd, ma, temo, solo se fosse sicura del suo predominio permanente nel partito: questo è chiaro soprattutto per la componente che, in questa prospettiva, da tempo auspica una alleanza più stretta con i 5 Stelle, ed ora con il partito di Conte. In tal modo, però, verrebbe meno quel bilanciamento tra i due compiti che un partito socialdemocratico dovrebbe sempre preservare, e che è essenziale per garantirne l’identità. Per questo avevo condiviso il disegno iniziale del “campo largo”, che purtroppo Enrico Letta non è riuscito a realizzare. E per questo mi dispiace che egli abbia dichiarato la sua indisponibilità a candidarsi come segretario nel congresso in corso: al momento non vedo chi altro potrebbe perseguire lo stesso disegno con altrettanta credibilità ed esperienza. Ma il congresso è solo agli inizi e sorprese positive sono possibili.

Dove è molto più difficile attendersi sorprese positive è il secondo problema: è possibile un successo elettorale di un Partito democratico ristrutturato nel modo che auspico? Non è impossibile a breve termine, ma purtroppo per ragioni del tutto diverse dalla comprensione, da parte degli elettori, della gravità della situazione e quindi dei meriti di un programma socialdemocratico. Nelle prossime elezioni, nel caso probabile che la destra non riesca a soddisfare le domande dei cittadini (per le sue debolezze interne, ma soprattutto per la difficoltà dei problemi che deve affrontare), la rabbia degli elettori potrebbe scaricarsi contro il governo in carica, come sinora è sempre avvenuto in Italia. E se la sinistra gioca bene le sue carte, non è impossibile che prevalga. Ma in tal caso avrebbe vinto un gioco, non la partita. Se per vincere rinuncia a dire la verità, se cede a tentazioni populistiche, se fa promesse che è impossibile mantenere, se evita di menzionare sacrifici e difficoltà, forse vincerà il gioco, ma perderà la partita. Siamo sicuri che una sinistra a trazione Pd non ragioni come ha sempre ragionato qualsiasi partito politico? “Intanto vinciamo il gioco, con qualsiasi mezzo legittimo possibile, prendiamoci il governo, e poi nessuno ci costringe a rispettare le promesse fatte, se gli elettori sono tanto sprovveduti da averci creduto”. Non è forse così che hanno vinto le destre nelle ultime elezioni? E soprattutto diamo l’immagine, se sarà necessaria una coalizione larga, che questa è unita e compatta, com’è riuscita a dare la destra nelle ultime elezioni.

È possibile vincere sia il gioco sia la partita? O c’è un contrasto tra questi due obiettivi? È possibile dare un’idea agli italiani che la situazione in cui ci troviamo è difficilissima, che richiederà un lungo periodo di sforzi costanti per essere risanata, e che il Partito democratico – per competenza e orientamento valoriale – è quello più in grado di raccogliere le forze migliori del Paese per risollevarsi dal declino? È questo il problema sul quale il congresso deve concentrarsi, a cominciare dal modo in cui il partito condurrà in Parlamento la sua opposizione alle destre.

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