“Noi a Roma vogliamo cambiare tutto, l’abbiamo promesso e lo faremo”. Così si conclude uno dei tanti lanci di agenzia col commento di Luigi Di Maio alla giornata più nera da quando il MoVimento 5 stelle ha vinto le elezioni comunali a Roma, coronata dalle dimissioni del capo di gabinetto della sindaca Raggi, dell’assessore al Bilancio (e ministro dell’economia in pectore di un futuro governo proprio da Di Maio guidato), e dei vertici di due municipalizzate come Atac e Ama. I verbi al futuro, nel M5s, non mancano mai. La storia raccontata dai grillini è tutta un verbo al futuro, si potrebbe dire. L’onestà andrà di moda, cambieremo, faremo. Il senso della militanza grillina, la sostanza di cui è fatto l’impeto del seguace del sacro blog, è il messianesimo, l’attesa di un futuro collettivo radioso (distopico per la stragrande maggioranza della popolazione, ma poco importa). Un futuro non vissuto come orizzonte personale (troppo mesti, troppo gentisti, troppo troppo anonimi i credenti grillini per farlo), ma delegato a mezzi scambiati per fini politici: onestà, internet, streaming, ecc.
Il problema del M5s, e della malcapitata Virginia Raggi, è che il messianesimo poco si sposa con il quotidiano. Soprattutto se il quotidiano è la merda che c’è a Roma: è qui che il messianesimo tecnico fallisce perché non si fa progetto politico, perché i mezzi non diventano fini. È qui che si sbriciola il futuro perché si sbriciola il presente come lo descrivono i grillini: se nel nostro Paese c’è un emblema della difficoltà a governare, questo è Roma, con i suoi poteri ridicolmente limitati, i suoi conti perennemente in rosso, il suo sviluppo smisurato e senza ordine, i suoi contrastanti portatori di interessi addirittura millenari. Se servisse una prova, a chi è dotato di buon senso, che non è (solo) la cattiva volontà a frenare le decisioni politiche, che non è (solo) l’ingordigia del personale politico ad “affamare i popoli”, questa andrebbe cercata a Roma. Se andasse cercato un luogo in cui la temperanza e la techné politica sconsigliano di vendere ricette facili dimenticando di essere evangelicamente candidi come colombe, ma prudenti come serpenti, quel luogo sarebbe presto trovato in un’uscita qualunque del Raccordo Anulare.
Un comico diceva, riguardo agli svizzeri, che è difficile parlare di un popolo, soprattutto quando non esiste. È un po’ la stessa cosa parlare del progetto politico grillino a Roma. I verbi al futuro ingialliscono, la lettura grillina del presente si scioglie come cera: mai mi era capitato di vedere che una maggioranza desse la colpa dei rifiuti in strada ai militanti dei partiti di opposizione. È il riflesso incondizionato di chi cerca tremende colpe e peccati da mondare messianicamente, perché non sa vivere senza, e soprattutto perché gli evita di trovare responsabilità proprie. Ma governare senza assumersene la responsabilità nel tempo presente è forse sostenibile?
Mentre il populismo crolla sotto i colpi della realtà, il futuro non è più quello di una volta. Cosa succederà dunque alla povera Raggi? È presto per dirlo, e ciò che ci aspetta nessuno lo sa. Le grandi aspettative con cui è stata eletta, dovute anche all’esasperazione dell’opinione pubblica di fronte a una classe politica romana imbarazzante, potrebbero portare la stessa delusione della popolazione di Springfield nella puntata dei Simpson in cui tutti aspettano il Giudizio Universale, che invece si rivela essere l’apertura di un nuovo centro commerciale. Da questo punto di vista le dimissioni di questi giorni potrebbero essere il segnale che la nave affonda. Oppure no, Virginia potrebbe andare avanti a lungo, tollerando le umane divisioni che spaccano il MoVimento e le hanno distrutto la Giunta, gli stipendi d’oro e i compromessi, e accettando che il governo, quasi come la vita, è quello che ti accade, sia per fato e necessità, sia per combinazione, sia anche per noia, senza che una direzione sia segnata. Che è un po’ la fine del messianesimo, che è un po’ la fine del MoVimento 5 stelle.