di Pasquale Pasquino
L’articolo di Galli della Loggia del 4 novembre sul Corriere della Sera propone una analisi di ciò che sta accadendo negli Stati Uniti per alcuni versi poco persuasiva, soprattutto nella parte finale dove parla di Corti di giustizia.
È verissimo che Trump non ha subito una sconfitta severa, ma le aspettative che si erano create nella parte più progressista dell’elettorato americano non venivano dai semplici (comprensibili) desideri di questi cittadini, simili e contrari a quelli degli ammiratori di Trump, ma da un rinnovato errore dei sondaggisti che davano a Biden un ampio vantaggio sul suo sfidante. Si tratta di una questione complessa che richiederebbe un contributo da parte di persone più competenti di chi scrive come pure di Galli. Tuttavia, avendo una certa dimestichezza con le Università americane, credo di poter dire che i sondaggi e la media degli stessi presentata dalla stampa fino alla viglia delle elezioni si basano in larga misura su algoritmi di esperti di matematica che sembrano avere sempre meno intelligenza della realtà del loro paese. Il quale peraltro ha un sistema elettorale specifico ad ognuno dei cinquanta Stati dell’Unione a dir poco complesso ed oscuro.
Certo si parla poco dell’America che ha votato Trump nel 2016 e lo ha rivotato oggi e Galli fa delle utili osservazioni a riguardo, che certamente andrebbero sviluppate. Un sondaggio apparso su Le Monde datato 6 novembre mostra dei dati molto interessanti: gli elettori di Trump sono in prevalenza maschi, anziani, religiosi, senza diploma universitario, di classe di reddito alta (più di centomila dollari annui) e abitanti nelle regioni rurali del paese. Trump attira il voto di una inedita alleanza – che si trova anche fra gli elettori di diversi partiti sovranisti europei – tra poveri e ricchi, cittadini con interessi diversi, alcuni desiderosi di pagare meno tasse, altri a sperare invano quello che aveva promesso senza darglielo l’avvento mai avvenuto del sol dell’avvenire. Ma è interessante osservare che questa volta non hanno più scelto Trump gli elettori degli stati del Rust Belt di tradizione operaia e vicini da lungo tempo al partito democratico, come avevano fatto invece nel 2016.
È vero anche che la democrazia funziona maglio nei paesi dove sono condivisi cultura e valori. Ma si esagera pensando che l’America sia spaccata in due. Anche se esagerare attira di più l’attenzione dei lettori.
L’America sin dall’inizio è stata spesso spaccata in due, tanto per cominciare dalla schiavitù, che ha condotto il paese ad una feroce guerra civile, giù giù fino alle lotte per i diritti civili coi loro morti, come Martin Luther King, e all’esercito che doveva scortare a scuola i bambini afroamericani. Gli elettori di Trump sono circa un quarto dei cittadini americani, e almeno due terzi non sono con lui, anche se moltissimi per disinteresse non votano. E l’America, nonostante ciò, è sempre rimasta un paese libero da dittature. Il suo maggiore problema oggi è la competizione con la Cina.
La parte più discutibile dell’articolo di Galli riguarda il discorso sulle Corti. Per quanto riguarda le corti federali americane ed in particolare la Corte Suprema non è corretto sostenere che quest’ultima voglia sostituirsi al legislatore. Da un lato essa si sforza di evitare che la legislazione degli Stati dell’Unione americana sia completamente diversa da una parte all’altra del territorio, dal Maine al Texas; dall’altro, essa prende assai spesso decisioni che il Congresso si rifiuta di prendere. Roe v. Wade è stata una sentenza contro la legislazione del Texas in un paese in cui la maggioranza dei cittadini americani erano favorevoli all’aborto vigente allora già in molti Stati. La decisione non rappresenta un caso di ubris giudiziaria come sembra credere Galli, ma una supplenza nei confronti di un Congresso dove gli eletti pensano soprattutto a non perdere elettori ed evitano ogni decisione che potrebbe danneggiarli nei confronti di questi, delegando tali scelte alla Corte Suprema.
Quello che è vero invece è che Democratici e Repubblicani hanno approfittato sempre più di una clausola della costituzione che permette loro – quando il Presidente ed il Senato sono dello stesso partito – di nominare a vita, come dice l’articolo 3 della Carta di Filadelfia, membri della Corte con posizioni politico ideologiche radicali – si pensi a giudici come Anthony Scalia o Ruth B. Ginsburg, e di scegliere ormai giudici cinquantenni che restano in carica per trenta o più anni. Ciò che non si dà in nessun paese dell’Europa Occidentale, se si parla di Corti Costituzionali. Le obiezioni nei confronti del carattere partigiano della Corte Suprema non sono affatto recenti, ci sono sempre state, da parte dei progressisti al tempo della Lochner Court e da parte dei conservatori nei confronti della liberale Corte Warren.
Molto poco persuasiva la tesi che gli elettori di Trump siano ostili ad una Corte che da molti anni è caratterizzata da posizioni conservatrici. Ostili alla giudice Amy Barrett? Forse Galli parla di un altro paese.
La chiusa dell’articolo poi è stravagante.
Non si sa più di chi sta parlando. Non certo dell’America dove i giudici delle Corte Suprema sono tutti o almeno otto su nove dei competentissimi giuristi, che sono stati vagliati da tutti i punti di vista (purtroppo anche ideologici) per tutta la loro carriera, che non comincia affatto con un “concorso all’alba” della medesima, ma come vuole la costituzione e per tutti i giudici federali, con una nomina del Presidente, se confermata dal Senato.
Suggerisce infine Galli che sta parlando in realtà dell’Italia. Ma anche sulla Corte Costituzionale del nostro paese non sembra perfettamente informato.
Dei quindici suoi membri dieci sono suoi colleghi, professori universitari di chiarissima fama. Hanno fatto molti concorsi universitari e quasi tutti sono noti e stimati al di qua e al di là delle Alpi, come forse Galli. Cinque sono poi sempre giudici anziani delle nostre Corti supreme. Chi dovrebbe far loro, ai Renato Granata o ai Giorgio Lattanzi, gli esami di diritto?
Pasquale Pasquino, nato a Napoli nel 1948, è Director of Research al French National Center for Scientific Research (CNRS) nonché docente di Politics and Law alla New York University. Dopo gli studi di filologia classica, filosofia e scienze politiche ha pubblicato ricerche sulla storia delle idee relative allo Stato e alle costituzioni. In anni recenti la sua ricerca si è concentrata sulla giustizia costituzionale in una prospettiva costituzionale. In passato ha lavorato presso il Max Planck Institute di Göttingen, il Collège de France e il King’s College di Cambridge.