di Enrico Morando*
Vorrei parlarvi per qualche minuto di Emanuele Macaluso dirigente dei miglioristi del PCI-PDS.
È stato detto e scritto che Emanuele avrebbe terminato di svolgere attività di direzione politica con la svolta dell’89. È stato ripetuto anche questa mattina. Ma è un’affermazione priva di fondamento: Macaluso, per tutta la prima metà degli anni 90, fu il coordinatore dell’area riformista del PCI-PDS, cioè di una delle principali correnti interne al partito nato dalle radici del PCI.
Prima, qualche parola sul nostro nome: miglioristi o riformisti? Ci fu una discussione, tra di noi, sulla scelta da compiere. Non è vero, infatti, che il termine “miglioristi“ venne inventato dai nostri avversari interni -la sinistra-, a fini spregiativi: quelli che non volevano cambiare davvero, che si limitavano a mutamenti di contorno, per quanto migliorativi. Ad usare questa espressione per primi furono Veca e Salvati, non certo per disprezzare, ma per apprezzare e incoraggiare il lavoro politico e la funzione di quanti -anche dentro il partito comunista-, avevano abbandonato la logica dell’alternativa “di sistema“ e lavoravano ad un processo di cambiamento idealmente molto esigente, ma realistico. Solo successivamente fu Ingrao (non ricordo bene in quale occasione), ad usare il termine “miglioristi“ in chiave spregiativa.
Per parte mia, ero nettamente a favore di una nostra scelta per l’autodefinizione di miglioristi, per due ragioni. La prima (lo ammetto: poco convincente, perché ispirata ad obiettivi di tipo propagandistico, nella competizione interna al partito) era la pronta ritorsione che quella definizione rendeva disponibile per chi la assumesse: sì, noi siamo orgogliosamente miglioristi, e ci distinguiamo da voi che siete a tal punto “peggioristi” da considerare degno di disprezzo chi lavora per ottenere il meglio.
La seconda -più seria- era proprio riferita alla naturale capacità che il nome “miglioristi“ possedeva di definire la sostanza del nostro posizionamento di cultura politica: processo ininterrotto di cambiamento -ispirato da ideali di libertà, uguaglianza e solidarietà e da interessi e forze sociali di tipo progressista-, contro ogni logica di rottura di sistema in chiave classista. Difficile trovare qualcosa di più efficace per definire il senso della nostra battaglia.
Inutile dire che -alla fine- la definizione che comprendeva tutte le diverse sensibilità interne alla neonata corrente fu “Area Riformista“. Noi, fan del migliorismo, ci si accontentò del sostanziale sdoganamento circa l’uso della definizione da parte di chi l’apprezzava.
Macaluso, dicevo, fu il primo (e unico) coordinatore dell’area riformista, finché essa ebbe vita. E, nello svolgimento di quel ruolo di direzione politica, Emanuele ha fornito un contributo determinante all’innovazione della cultura politica e della prassi della sinistra italiana.
1- Lo ha fatto, in primo luogo, riflettendo criticamente sulla esperienza del PCI. Nella relazione al seminario dell’area riformista del 20/21 novembre del ‘92, Macaluso cerca di indagare sugli elementi di cultura politica che potevano spiegare l’inclinazione consociativa della linea politica del PCI, e ritiene di trovarli nel “sostegno dato dal PCI a provvedimenti e misure sociali che avevano in definitiva anche una valenza corporativa e clientelare nell’ambito del sistema di potere dominante“.
È una critica che si avvicina a quella di Luciano Cafagna sulla “bulimia“ del PCI. Col linguaggio di oggi, si può dire che si tratta di una ben fondata analisi di quegli elementi di cultura politica che stavano alla base di un qualche cedimento dei comunisti italiani al “populismo“… Un fattore che non ha smesso di fare danni nemmeno oggi: il silenzio imbarazzato di molti, nel PD, su di un obbrobrio come Quota 100 richiama, ad esempio, l’acquiescenza dei comunisti alle misure ipercategoriali di pensionamento anticipato del passato: per tutti, si può ricordare il caso della famigerata legge 335 sugli ex combattenti dipendenti pubblici, che introduceva pesanti discriminazioni tra lavoratori. Se eri lavoratore pubblico ed ex combattente, andavi in pensione otto anni prima dell’ex combattente lavoratore privato. Un’enorme discriminazione tra lavoratori, che veniva tollerata in nome di un consapevole inganno, tipico dei populisti: “oggi vale solo per questi; ma non è un privilegio ingiusto, perché domani, grazie a noi, sarà per tutti“. Impossibile. E i dirigenti del partito lo sapevano benissimo. Ma non resistevano alla tentazione bulimica.
2- Macaluso non ha mai aderito al PD ed è sempre stato critico rispetto alle scelte che hanno condotto a costruire e a far vivere questo partito. Ma sbaglia chi pensa che Emanuele non abbia visto -per tempo e prima di altri-l’esigenza di costruire in Italia un soggetto politico -un partito- capace di essere esso stesso “di centrosinistra“.
Risale al 21 ottobre del 1994 un documento inviato da Macaluso ai dirigenti dell’area riformista del PDS, in cui, dopo aver apprezzato il tentativo del segretario D’Alema di “allacciare un rapporto con il centro“, mostra i limiti di questa iniziativa, perché -scrive testualmente Macaluso- “non c’è un’iniziativa per fare del PDS un partito che abbia, in sé medesimo, parte di questo centro-sinistra”.
Non si trattò di un’intuizione non sviluppata, di un’idea su cui non si fosse dispiegata una trasparente iniziativa politica. Al contrario: quando Emanuele la riprende, nei mesi finali del 94, lo fa sulla base di un’iniziativa politica dell’area riformista, volta alla costruzione del Centro di Iniziativa del Socialismo Democratico e Liberale nell’Alleanza Democratica. Il manifesto del CISDEL, scritto dai riformisti del PDS con personalità come Giorgio Ruffolo, Salvatore Veca e Massimo Salvatori, sostiene in modo esplicito l’esigenza di dar vita ad un soggetto politico di tipo federativo che fosse esso stesso di centro-sinistra; e afferma la centralità -in quel nuovo contesto- del socialismo democratico e liberale.
Macaluso giungeva a sostenere questa ipotesi di ridefinizione dei soggetti politici e dell’intero campo del centro-sinistra riflettendo sui limiti che avevano portato alla sconfitta della primavera del 94, in cui -dice Emanuele citando la relazione di Umberto Ranieri al convegno di Milano del CISDEL (ottobre 1993)- il PDS e le forze del centro-sinistra erano rimasti impigliati nella rete di un triplice mito: quello dell’unità della sinistra; quello dell’unità politica dei cattolici; quello dell’unità politica delle forze laiche, espresso nella ricerca della “terza forza“.
In particolare, riferendosi al PDS, Macaluso vede la sconfitta come l’esito di un duplice errore: a- “Non aver lavorato in tempo per sollecitare una personalità in grado di ottenere il consenso della sinistra e del centro“, al fine di presentarne la candidatura alla premiership, nel nuovo sistema maggioritario…(“Gravissimo errore quello di Occhetto leader non leader“, scrive Macaluso); b- Aver considerato prevalente unire tutta la sinistra, non avere “nemici a sinistra“, affermando, nella sinistra unita, l’egemonia degli ex comunisti.
*Intervento al convegno dal titolo: “Emanuele Macaluso, una vita nella sinistra”, Roma 1/10/2021
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)