LibertàEguale

Macaluso, la pandemia e quel nostro Novecento

di Danilo Di Matteo

 

Il Novecento è il secolo breve, interrotto dal crollo del Muro di Berlino, nel 1989. E, insieme, è il secolo (quasi) interminabile: stentiamo a superarne i limiti e i vincoli.

La pandemia da Covid-19, tuttavia, a parer mio ne sancisce davvero la conclusione. Cadono modelli consolidati, o si mostrano fragilissimi, ed è assai difficile scorgerne di nuovi. E dunque: che ne è di quel nostro Novecento, per dirla con il titolo di un bel libro di Raniero La Valle di dieci anni fa? Ecco, una possibile risposta proviene dall’insegnamento di Emanuele Macaluso: riuscire a discernere, questo dovrebbe essere l’imperativo. A cavallo fra XX e XXI secolo, ad esempio, abbiamo troppe volte mortificato Carlo Rosselli recependolo in maniera superficiale e, nello stesso tempo, abbiamo mortificato il senso dell’impegno e dell’azione di persone come Lelio Basso o Leonardo Sciascia, dimenticandole. Insomma: più che la “sinistra plurale”, abbiamo coltivato una sinistra superficiale e approssimativa. Nodi complessi quali i rapporti tra cultura e politica, libertà ed equità, rappresentanza di interessi, bisogni e istanze e rapidità nelle decisioni, Italia e resto d’Europa, fede (fedi) religiosa (religiose) e altri ancora restano lì, non sciolti, e incombono, facendo da sfondo ai nostri limiti.

Come se, ponendo uno accanto all’altro Gramsci e Rosselli, fossimo approdati d’incanto a una cultura politica nuova e all’altezza dei tempi (completata magari dal richiamo a don Lorenzo Milani e al pastore Martin Luther King). Non è stato così, non poteva essere così. Certo, la politica è fatta di scadenze e di urgenze: le crisi economiche e finanziarie, il degrado ambientale, la pandemia, oggi. Resta però l’impressione – un’impressione netta, non vaga – che non disponiamo affatto dei “ferri del mestiere” neppure solo per approcciarci a questioni tanto delicate e complesse. Ursula von der Leyen o Mario Draghi, ad esempio, rappresentano delle risorse preziose per le nostre democrazie, ma faremmo torto alla loro (e alla nostra) intelligenza se le invocassimo in modo quasi magico, come avveniva secoli addietro con i “re taumaturghi”.

Il problema, in definitiva, resta simile a quello della polis greca, di Platone e di Aristotele: provare a coniugare azione e pensiero. In un contesto, quello attuale, assai diverso e mutevole.

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