di Vittorio Ferla
La questione del salario minimo potrebbe modificare gli equilibri della politica italiana. Per la prima volta da quando Giorgia Meloni è al governo, l’opposizione riesce a tirarsi fuori dai suoi numerosi inciampi e si presenta unita. O quasi, visto che Renzi non ha aderito alla proposta comune e ha contestato l’incontro di Palazzo Chigi chiedendo di riconoscere lo spazio di intervento del parlamento. Elly Schlein, finora criticata con fondamento per l’astrattezza della sua iniziativa, è riuscita a indovinare la battaglia giusta: quella contro il lavoro povero le permette di ristabilire un contatto con una parte del paese e, soprattutto, di qualificarsi finalmente per la capacità di affrontare problemi concreti. Grazie all’iniziativa della segretaria dem, il salario minimo è entrato nell’agenda del dibattito pubblico e rappresenta oggi una priorità rispetto alla quale il governo non può permettersi di traccheggiare. Tutto questo avviene perché sul tema – è questo il secondo merito di Schlein – le diverse forze dell’opposizione hanno deciso di coordinarsi. Pd, M5s, +Europa e Azione – senza Italia Viva – si sono mosse insieme per una iniziativa comune: un evento obiettivamente inedito in questa legislatura. Per qualcuno è già l’embrione di una possibile futura coalizione che comincia ad assemblarsi. Certo, si può obiettare che la richiesta di una legge sul salario minimo sia viziata da un fondo di populismo, ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. In ogni caso, questo primo abbozzo di alleanza avviene fuori dalle discussioni astratte e generiche sull’identità e sul posizionamento di ciascuna delle singole forze del centrosinistra, bensì su un terreno concreto, a partire dall’ascolto dei bisogni di una parte dei lavoratori: quelli che guadagnano sotto i minimi necessari per vivere dignitosamente e resistere in una congiuntura segnata dai morsi dell’inflazione. Inoltre, ben al di là della platea dei diretti interessati, in tutti i sondaggi l’idea del salario minimo è vista con favore da 7 italiani su 10. Tra questi anche molti elettori di Fratelli d’Italia.
Per tutti questi motivi, Giorgia Meloni ha fiutato l’importanza del caso: non potendo limitarsi a fare spallucce (come per altre proposte delle opposizioni) ha scelto di agire di contropiede convocando i partiti della minoranza a Palazzo Chigi. La mossa ha un indubbio vantaggio: permette alla premier di prendere in mano la gestione del dossier, nonostante l’evidente primogenitura di Elly Schlein (e di Giuseppe Conte), e di cavalcare la tigre del potenziale consenso. In questo modo, inoltre, può scompaginare l’intesa delle opposizioni: Calenda ha molto apprezzato l’iniziativa di Meloni proprio mentre gli altri leader la accusano di buttare la palla in tribuna per il fatto di non avere un proposta propria e di rimandare la pratica al Cnel che dovrà presentare una proposta entro 60 giorni. In effetti, nella partita a scacchi tra governo e opposizioni, il coinvolgimento del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è decisiva. Il Cnel è un organo di rilievo costituzionale previsto dalla Costituzione per svolgere una funzione consultiva rispetto a governo, parlamento e regioni. Il che consente legittimamente a Meloni di ‘spoliticizzare’ la questione, sottraendola alla contrapposizione tra maggioranza e minoranza e consegnandola alla concertazione sociale e alla tecnica degli esperti. Nel Cnel, infatti, sono rappresentate tutte le parti sociali, dai sindacati ai datori di lavoro, direttamente interessate a influenzare la legislazione sul salario minimo. Sarebbe abbastanza contraddittorio se, a questo punto, le opposizioni di sinistra rifiutassero una concertazione tra e con i soggetti sociali.
L’iniziativa di Meloni fa emergere così un singolare paradosso. Da un lato, c’è una sinistra che, con l’obiettivo di chiudere i conti con la presunta ‘infezione’ liberale che ne avrebbe deturpato l’identità, cerca di farsi spazio sull’onda del disagio sociale con la convinzione di risolvere i problemi tramite la rigidità della normazione statale. In questo modo affidando soltanto alla legge la capacità di regolare relazioni che dovrebbero essere affidate soprattutto al negoziato tra le parti. Dall’altro lato, c’è una destra che, probabilmente influenzata da una impostazione corporativa astutamente mescolata a pratiche neo-consociative, sembra rivalutare il contributo dei sindacati (Cisl e Uil sono fredde sul salario minimo) valorizzando la contrattazione nazionale e – si spera ancor più – quella decentrata come strumenti più agili di sperimentazione pratica, innovazione sociale e sussidiarietà capaci di costruire soluzioni efficaci dal basso. Nell’iniziativa di Meloni non manca la “coda del diavolo”. Il Cnel, audito in commissione lavoro alla Camera, ha già chiarito che il salario minimo non può esaurire il dibattito sul lavoro povero, mentre servono interventi più ampi e penetranti per eliminare gli ostacoli alla generalizzata crescita dei salari. È questa la linea di Renato Brunetta, presidente del Cnel. In ogni caso, al di là delle proposte tecniche che saranno formulate, il lavoro povero resta una questione troppo importante sulla quale il governo Meloni non può fallire perché si gioca una notevole quota di credibilità e di consenso.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).