di Rosario Sapienza
Verrebbe fatto di chiedersi come andrà a finire. Se non ci fossero di mezzo le vite e i destini di esseri umani, questa storia della pertinace “persecuzione” ungherese nei confronti dei migranti potrebbe pure essere appassionante, tanto radicale è lo scontro e tanto definite le posizioni.
Sembra quasi un caso di scuola, uno di quelli in cui, costruendo una finzione, si descrivono posizioni estremizzate per aiutare gli studenti a capire bene un problema giuridico.
E invece è tutto vero.
È vero che l’Ungheria è stata per l’ennesima volta condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea per il modo in cui tratta i migranti ai suoi confini.
È successo il 17 dicembre, tra l’altro alla vigilia della giornata internazionale del migrante che cade appunto il 18.
La Grande Sezione della Corte di Giustizia ha accolto il ricorso C- 808/18 presentato dalla Commissione contro l’Ungheria per avere violato le norme europee in materia di procedure di riconoscimento della protezione internazionale (la direttiva 2013/32/UE), di accoglienza dei profughi (la direttiva 2013/33) e di rimpatrio di cittadini di Paesi terzi (la direttiva 2008/115/CE), se irregolari sul territorio dell’Unione.
Come si sa, le direttive dell’Unione sono atti normativi che fissano discipline e principi comuni che poi gli Stati membri sono chiamati a tradurre in norme nei propri sistemi giuridici. Norme compatibili ovviamente con il disposto delle direttive.
Con una legge del 2015, invece, poi modificata e integrata nel 2017, l’Ungheria istituiva al confine con la Serbia le due zone di transito di Röszke e di Tompa, nelle quali soltanto si potevano esaminare le richieste di protezione internazionale. Questa legge riconosceva ampi poteri alle autorità e prevedeva molti casi in cui esse avevano la possibilità di dichiarare esistente una «situazione di crisi causata da un’immigrazione di massa», circostanza che permetteva di derogare alle norme generali di protezione.
Ora. tutto questo non è compatibile con le norme del diritto dell’Unione in materia di migrazioni e asilo e, per queste ragioni, la Commissione ha presentato un ricorso per inadempimento. Un tipo di ricorso che la Commissione o un altro Stato membro possono proporre contro uno Stato membro che presumono abbia violato il diritto dell’Unione.
E la Corte ha accolto, sia pure in parte, le tesi sostenute dalla Commissione. Ha, per esempio, deciso che l’Ungheria ha violato il diritto dell’Unione europea, stabilendo che le due zone di transito sono gli unici varchi attraverso i quali gli asilanti possono attraversare la frontiera. Il che rende meno effettivo il diritto di accedere alla protezione, soprattutto se si tiene conto del fatto che il numero delle richieste che si possono presentare ogni giorno è assai limitato. Invece il diritto dell’Unione prevede che non si possa ostacolare e ritardare la presentazione delle domande di protezione internazionale.
Una distinta violazione è poi rappresentata dal fatto che l’Ungheria impone ai richiedenti asilo di rimanere nella zona di transito per tutta la durata della procedura di esame della domanda. Questo «trattenimento» è vietato dalla normativa europea che lo autorizza solo in certe circostanze e peraltro con una serie di garanzie che l’Ungheria non concede. Né, secondo la Corte, l’Ungheria può invocare l’esistenza di un particolare pericolo per la sicurezza della nazione come motivo per derogare ai propri obblighi.
E ancora l’Ungheria ha violato la normativa europea, dato che ha proceduto immediatamente all’espulsione dei richiedenti la cui richiesta non è stata accolta, mentre il diritto dell’Unione prevede che chi abbia vista respinta la sua richiesta possa rimanere sul territorio dello Stato in cui si trova fino alla decisione del ricorso che abbia presentato. E che comunque prevede particolari garanzie che l’Ungheria non ha prestato, dato che le persone respinte venivano riaccompagnate coattivamente alla frontiera serba, o meglio in una striscia di terra di nessuno priva di qualunque infrastruttura.
Insomma, l’Ungheria ha cercato in tutti i modi di ostacolare i richiedenti asilo che volevano entrare in Europa varcando il confine tra la Serbia e l’Ungheria.
E la Corte ha sanzionato questi comportamenti e continuerà a farlo in applicazione di una normativa europea che, lo si è notato tante volte, tra l’altro è in sé molto cauta nel riconoscere tutele agli asilanti. E si andrà avanti così chissà fino a quando.
E ciò perché il problema è più complesso.
L’Ungheria di Orban, lo sanno tutti, non ama gli immigrati. Ma questa vicenda e le tante che l’hanno preceduta, e le tante che verosimilmente la seguiranno, mostrano che per Orban e i suoi quel che è inaccettabile è l’imposizione di una linea di condotta, quale che sia.
Sia nella normativa nazionale censurata, sia nelle argomentazioni difensive proposte davanti alla Corte, ritorna in maniera quasi ossessiva la rivendicazione della libertà di qualificare in piena autonomia le situazioni, prevedendo eccezioni dove non ce ne sono, dilatando gli ambiti di quelle previste, insomma pretendendo di stare nell’Unione da Stati pienamente sovrani, senza rinunciare alla pienezza dei propri poteri.
In altre parole, negando l’essenza stessa e la logica ultima dell’Unione. Che si basa appunto sulla cessione di quote di sovranità da parte degli Stati membri.
L’Ungheria di Orban è dunque pienamente … sovranista, qualunque cosa significhi questa parola. E dunque il problema non è tanto che non ami i migranti (cosa vera e disdicevole, se non disgustosa), ma piuttosto che non ama l’Europa, questa Europa fatta anche di vincoli e restrizioni.
Una Europa che comunque non può cacciare nessuno, tutt’al più può sospenderlo dal godimento di certi diritti (ai sensi dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea) nel caso di gravi e persistenti violazioni dei valori di cui all’articolo 2.
Dunque, ce lo teniamo, perché, anche per ragioni geopolitiche, abbiamo bisogno di tutti, e non solo perché dobbiamo apparire inclusivi, perché se fosse per quello, avremmo una splendida occasione accogliendo chi rischia la vita attraversando il Mediterraneo per arrivare fino da noi.
Ce lo teniamo, perché, dopo l’uscita del Regno Unito, un’altra uscita sarebbe complicata da gestire.
Brexit humanum, Ungarexit … diabolicum!
Direttore di Autonomie e Libertà in Europa, contenitore di iniziative e ricerche sulla protezione dei diritti umani nei diversi territori europei. Professore ordinario di diritto internazionale nell’Università di Catania, ha dedicato particolare attenzione alle politiche di riequilibrio territoriale dell’Unione europea, collaborando con la SVIMEZ. E’ vicepresidente di Coesione & Diritto, associazione per la tutela dei diritti umani sul territorio. Autore del blog Lettere da Strasburgo sul magazine online www.aggiornamentisociali.it.