Intervista di Umberto De Giovannangeli a Enrico Morando*
La costruzione di un campo liberale e socialista è qualcosa che riguarda anche il Partito democratico. È il filo conduttore di questa nostra intervista a Enrico Morando, leader dell’area liberal del Pd, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già vice ministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni.
«È ora di unificare le forze. C’è bisogno di una aggregazione liberale e socialista che elabori un progetto, ridia spazio alla politica, rimetta in moto anche le capacità di pensare della sinistra e della destra, dia scacco al qualunquismo…». Così il direttore de Il Riformista, Piero Sansonetti. È una riflessione che vede il Pd solo come spettatore?
In primo luogo, se io fossi convinto che la cultura liberaldemocratica e liberalsocialista non fosse una componente fondamentale della cultura politica del Pd, non farei parte di questo partito. Senza la presenza e la funzione centripeta di questa componente, il Pd non sarebbe nato e non avrebbe potuto diventare il partito che è: la forza politica asse del sistema politico italiano, un partito “obbligato” a governare non solo quando vince le elezioni, ma addirittura anche quando “non le vince” (2013) o quando le straperde (2018). Questo non significa che la cultura politica liberaldemocratica e liberalsocialista sia “naturalmente” quella a cui si ispira la maggioranza pro tempore del Pd: nella breve storia di questo partito -in cui leadership e linea politica sono contendibili di fronte a milioni di cittadini elettori- si è già determinata più volte l’alternanza tra leadership che si rifanno al “liberalismo inclusivo” di sinistra e altri che sostengono posizioni ideali e politiche proprie della sinistra tradizionale. All’ultimo congresso, democraticamente, ha prevalso quest’ultima. Purtroppo, una parte della sinistra liberale italiana ha pensato -sbagliando, secondo me- che questa sconfitta fosse irreversibile, che il “Pd non fosse più contendibile”. E si è divisa: molti sono rimasti nel Pd, altri hanno dato vita a partiti personali, altri partecipano al lavoro di elaborazione di politiche riformiste, senza appartenere ad alcun partito. Tutti più deboli, proprio quando -con Draghi e la sua agenda- lo spazio politico di una posizione liberale di sinistra nel centrosinistra italiano si è molto allargato. In questo senso, l’esigenza di un processo di riaggregazione dei riformisti -di cui ha scritto il Direttore Sansonetti- ha bisogno di risposte urgenti: se la maggioranza del Pd la avverte come una questione “esterna” al partito stesso (e si comporta di conseguenza); e se l’area dei riformisti “esterni” al Pd persegue la propria aggregazione come se i riformisti del Pd e quel partito nel suo complesso fossero persi per la causa (la teoria del bipopulismo), temo che l’esigenza del Paese di utilizzare la fiducia di oggi per un duraturo progetto di crescita e di benessere, resterà insoddisfatta. E il Pd vedrà aggravarsi il già enorme divario tra la sua funzione politica e il suo consenso elettorale. Senza un grande partito riformista a vocazione maggioritaria non c’è progetto riformista che abbia qualche possibilità di realizzarsi. In quel partito, si confrontano -come accade in tutti i partiti di sinistra che aspirano credibilmente al governo- due posizioni. Per brevità, le chiamerò con gli autori che ne hanno meglio definito i contorni: la sinistra à la Piketty e la sinistra à la Salvati-Dilmore (rispettivamente, Capitale e Ideologia e Liberalismo inclusivo). La mia tesi è che solo la seconda posizione sia in grado di elaborare prima e realizzare poi un coerente progetto riformista, che risulti credibile per la maggioranza. Per usare anche qui i nomi di persone, che danno subito l’idea: Biden può riuscire. Sanders no. Quindi, ben venga un processo di riaggregazione dei liberali di sinistra oggi fuori dal Pd. Potrà essere utile a due condizioni. La prima dipende da loro: riconoscano che il “bipopulismo” non è un dato di realtà, ma un simulacro di comodo creato al solo scopo di poterlo più facilmente abbattere. La seconda dipende da noi riformisti più coerenti del Pd: dobbiamo condurre una trasparente battaglia politica interna a questo partito (tra le due linee Piketty o Salvati), che non c’è stata o è stata troppo debole.
In una intervista al Riformista Ivan Scalfarotto, una delle figure di primo piano di Italia Viva, fa discendere un’alleanza del campo riformista con il Partito democratico da una rottura dell’asse con i 5Stelle. Sulla stessa lunghezza d’onda è il leader di Base Italia, Marco Bentivogli che, sempre dalle colonne de Il Riformista, vi lancia un messaggio: «Se il Pd rompe coi populisti nasce davvero il campo riformista». Lei come risponde?
Ho detto prima che tutto dipende dalla esistenza o meno di un partito (è accaduto raramente che fossero più di uno, lealmente impegnati in uno sforzo comune) riformista a vocazione maggioritaria. In parole povere: tutto dipende dal rapporto di forza, dentro la ipotetica coalizione, tra i riformisti e gli altri. Vale anche per il rapporto col M5S.
Cioè?
Ma lei lo ha visto di Maio, nella foto al Quirinale per il recente accordo italofrancese? Era con Draghi (il campione dell’Euro, che meno di quattro anni fa il M5S voleva “superare”). Con Mattarella, di cui il M5S propose addirittura la messa in stato di accusa. E con Macron, che oggi Di Maio voterebbe, mentre ieri incontrava festante i gilet gialli… Questa legislatura è nata con un rapporto di forza tra M5S e Pd nettamente squilibrato a favore del primo. Ora, c’è stato un netto riequilibrio. Prima, la subalternità dei riformisti al M5S era un rischio reale, difficilmente eludibile. Oggi è il Pd a dare le carte. Il problema è su quale linea politica lo fa. Ma questo dipende dalle scelte del Pd stesso, non dalla esistenza di una eventuale coalizione col M5S.
Molto si discute e si ipotizza sul futuro politico di Mario Draghi. C’è chi lo vorrebbe al Quirinale e chi invece ritiene che debba continuare a essere sulla plancia di comando di Palazzo Chigi per portare a termine la realizzazione del Pnrr. Lei come la vede?
Io vedo un enorme errore di partenza, che rischia di pregiudicare il clima di fiducia che si è creato, nel Paese e fuori, sul presente e sul futuro dell’Italia. Questo clima è il frutto del governo Draghi: della credibilità internazionale del Presidente del Consiglio, della capacità di vaccinare più e meglio di altri, della tempestiva elaborazione del PNRR, delle prime riforme (giustizia) e dell’avvio del processo di realizzazione degli investimenti del PNRR stesso. Bene. Ora io mi chiedo: ma davvero c’è qualcuno che pensa che questo clima potrà permanere e consolidarsi se dentro la maggioranza che sostiene il Governo si scatenerà una rissa all’ultimo voto tra centrodestra da una parte, che ha già scelto il “suo” Presidente, e il centrosinistra dall’altra? Tutti sanno la verità: se questo succede, il Governo è finito e il Paese precipita all’indietro. Ma siamo ancora in tempo per evitare questa tragedia: si avvii subito un serio confronto -non sui giornali, ma nelle sedi e con i metodi opportuni- per arrivare alla prima votazione con un candidato della maggioranza di governo. E si dica apertamente che lo si sosterrà fino alla elezione. In questo contesto, si può anche parlare dell’ipotesi Draghi. Fuori da questo contesto, aumenta solo i rischi di collasso.
Un altro tema oggetto di dibattito è la prospettiva evocata da Luigi Di Maio di un possibile ingresso dei 5Stelle nella famiglia politica del socialismo europeo.
Vede quanto pesano, in politica, i rapporti di forza. Poiché le posizioni politiche fondamentali del gruppo parlamentare dei Socialisti e Democratici in materia di rafforzamento dell’Unione, rapporti euroatlantici, contrasto del nazionalpopulismo sono chiari, non capisco perché ci si dovrebbe opporre all’ingresso nel gruppo stesso di chi fa pubblica abiura di posizioni opposte sostenute in passato. Piuttosto, io mi chiedo: quanti degli elettori che hanno scelto il M5S sulla base della posizione originaria (issue fondamentale: vaffa…), seguiranno il M5S su posizioni come quelle lodevolmente assunte oggi?
Guardando all’Europa, lei pensa che il rilancio di un europeismo praticato e non proclamato passi attraverso il rafforzamento dell’asse Roma-Parigi? E in questa ottica, fuori dal provincialismo enfatizzante, quale il peso reale del “Trattato del Quirinale” siglato da Draghi e Macron?
Penso che l’Italia abbia di fronte a sé un appuntamento cruciale: la riscrittura (o la semplice rimessa in vigore) del Patto di stabilità, sospeso con l’esplosione della pandemia. Le posizioni in campo sono tre. La prima è quella degli europeisti “frugali“, che propongono il mero ripristino delle regole così come erano: il Next Generation EU, per loro, è una misura assolutamente eccezionale, destinata a rimanere un unicum. La seconda è quella che definirei degli europeisti “possibilisti“: condividono con i primi la cautela, ma sono disponibili sicuramente ad alzare il tetto del rapporto debito/Pil ammissibile (dal 60% attuale al 100%) e non sono pregiudizialmente chiusi alla discussione su nuove regole di finanza pubblica pro crescita, purché non lassiste in tema di deficit e debito. La terza, è quella degli europeisti “innovatori“: il piano Next Generation EU è il primo, fondamentale passo verso la capacità fiscale dell’Unione, cioè “il motore“ di crescita che non c’era al momento della Grande Recessione. Ora, il governo italiano di Draghi e quello francese di Macron condividono, con sfumature diverse, la terza posizione. Il rapporto di fiducia e di collaborazione instauratosi tra i due Governi e tra i due Paesi può aiutare entrambi, nel duro confronto che si è già aperto: l’Italia ad uscire dall’angolo della detentrice del più grande debito, perciò stesso poco credibile quando, isolata, chiede scelte fiscali comuni. La Francia, a riequilibrare a suo favore il rapporto con la “nuova“ Germania di Scholz.
*Il Riformista, 1 dicembre 2021