di Alessandro Maran
Molte delle difficoltà nel costruire un partito nuovo e libero dall’eredità comunista derivano proprio dall’incapacità di fare i conti con l’ombra dello storico segretario
Sarà, come scriveva Vladimir Nabokov, che “nel proprio passato ci si sente sempre a casa”, fatto sta che il richiamo ai bei tempi andati, a quella mitica età dell’oro che la postmodernità e la globalizzazione ci avrebbero rubato, è diventato la principale caratteristica della politica italiana. Specie a sinistra, dove il dibattito si avvita sempre su questioni identitarie e affettive e sembra ancora che, come ai tempi della “svolta”, il confronto sia tra chi amava e rimpiange il Pci e chi, invece, no.
In questi giorni, nell’anniversario della sua scomparsa, si ricorda Enrico Berlinguer. La morte drammatica sul palco di Padova lo ha consegnato al mito e, della sua eredità, ciascuno ha scelto la parte che più gli è congeniale. Nicola Zingaretti si dice convinto che “nel patrimonio genetico del Pd ci sia ancora quella spinta propulsiva che deriva dall’aspirazione a cambiare l’ordine delle cose, di cui parlava Berlinguer”. E Scalfari – al quale ormai si perdona tutto – arriva a dire che “il Pd non è altro che il Partito comunista di Berlinguer”. Ma allora perché stupirsi del fatto che la maggioranza degli italiani continui a diffidare della sinistra (togliendole addirittura consensi per premiare, come dimostrano le analisi sui flussi elettorali, la Lega di Salvini)? Il Pci non era un partito socialdemocratico e non voleva diventarlo; l’austerità che gli italiani dovevano abbracciare come visione e stile di vita doveva essere la premessa di un radicale cambiamento del modello di sviluppo fuori dal quadro e dalla logica del capitalismo; l’attacco all’individualismo era centrale nella cultura del partito ed il superamento del capitalismo e lotta all’imperialismo americano erano opzioni ideologiche di fondo e, in quanto tali, del tutto estranee alla tradizione politica occidentale: Antonino Tatò, tra i principali collaboratori di Berlinguer, arrivava infatti a sostenere che “i paesi socialisti sono superiori ai paesi con i governi socialdemocratici, l’Urss è comunque superiore alle socialdemocrazie”.
Come ha osservato Claudia Mancina nel saggio che ha dedicato al segretario del Pci, molte delle difficoltà nel costruire un partito nuovo e libero dall’eredità comunista derivano proprio dall’incapacità di fare i conti con l’ombra di Berlinguer. Ma quell’orizzonte non esiste più. E il Pd dovrà necessariamente fondare la propria identità sul suo impegno per promuovere, qui e oggi, lo sviluppo del paese, creare opportunità e ridurre le disuguaglianze di una società profondamente diversa da quella di allora. Rifarsi a Berlinguer non è necessario; e non è necessario “avere un Berlinguer a capo del Pd”. Specie se si considera che buona parte degli italiani ha ormai più dimestichezza con la figlia Bianca, che conduce l’ormai consueto teatrino con Mauro Corona, una trasmissione che, secondo Aldo Grasso, “è nata sul modello di Casa Vianello e di La Bella e la Bestia: pura finzione, tra sitcom e favola”.
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.