LibertàEguale

Nomine enti: se la politica non sa rigenerarsi

di Mauro Zampini

 

L’Italia nella morsa della pandemia è un groviglio di strazio per i morti, di esigenze dei vivi, di sentimenti, di paura, di fiducia e di sfiducia, di bilanci, di giudizi. Un groviglio che svela impietosamente la perdita da parte della politica della sua vera funzione, trovare, o almeno cercare, una soluzione nella sintesi dei problemi. La politica è, ormai a livello generale, una funzione monodimensionale. Non solo in Italia e nelle democrazie. Solo le dittature non hanno questo problema, non devono rendere conto.

Davanti ad un guaio di queste dimensioni, senza precedenti, una convinzione dovrebbe accomunare tutti, da chi ha responsabilità a chi si trova nelle mani di chi ha responsabilità: la necessità di affrontare l’imprevedibilità di ogni nuovo giorno con il rovello di formare la vastissima classe dirigente del paese classe nella qualità, nella professionalità, nella personalità, nell’autonomia della politica, priva di complicità.

Invece, capita che il governo in carica si trovi davanti al problema oggettivo di una quantità di nomine importanti per l’economia nazionale, e non solo. Nomine che non si possono non fare: ma non si vede il barlume di una autocritica, che coinvolga anche i precedenti i governi, rispetto al modo con il quale fino ad oggi, nei decenni, questa classe dirigente è venuta componendosi ad opera di schiere di governi, di ministri; ad opera delle Camere, ormai indistinguibili dai governi, quando si tratta di eleggere importanti figure istituzionali.

Nomine impossibili, quando il numero dei nominandi o degli eligendi non è divisibile per il numero degli appetiti. Oggi, a fronte di qualche centinaio (pare) di dirigenti da sostituire o confermare, la risposta dei partiti di governo sembra essere la divisione perfetta tra i due partiti maggiori, per funzione. Gli amministratori delegati ad uno, i presidenti all’altro.

Tolto il dolore enorme di venticinquemila scomparsi, questa è la più grande sconfitta della politica: l’incapacità di rigenerarsi. I morti in bare anonime, i posti da ricoprire nell’organigramma non meritevoli essi stessi di un nome, di un curriculum, di una motivazione. La sigla di un partito, accanto ad una funzione. Nessun ripensamento, nessuna resipiscenza, nemmeno per il futuro. E nessuna distinzione tra il governo e l’opposizione, basta risalire di un anno. Gli amministratori delegati di quegli enti al partito democratico, i presidenti al movimento cinque stelle.

La superficie delle nomine della politica è immensa: oltre a quelle direttamente spettanti, pubbliche, l’influenza politica lambisce ogni altro tipo di nomina, dalle università alla sanità. Nelle istituzioni indipendenti, zone franche dalla lottizzazione per definizione, persone di incontestata dipendenza ricoprono spesso incarichi per i quali nelle leggi istitutive la stessa politica richiede il requisito primario dell’indipendenza. Quando si dice la politica, in queste vicende, si intende la politica tutta; le distanze violente, quotidiane, non si riproducono nei comportamenti. Urleranno le opposizioni, coprendo l’ultima eco delle urla delle precedenti opposizioni. I politici, in queste situazioni, invocano il concetto del “primato della politica”. Concetto nobilissimo, forse un tempo, ora un alibi senza pudore.

Accanto all’amarezza, resta il rispetto per l’enorme travaglio di chi, ricoprendo funzioni pubbliche, si è trovato davanti ad una valanga di queste dimensioni. Capo del governo, presidenti di regioni, sindaci, meritano il più grande rispetto, anche per gli errori, inevitabili. Ma il dramma del paese, dei paesi democratici, è il graduale ma inarrestato scivolare della funzione della politica da cura della collettività a mero scontro per il potere. Le vittime, i popoli “sovrani”.

 

montesquieu.tn@gmail.com

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