di Enrico Morando
C’è in giro un’aria di rassegnazione che non promette nulla di buono. Sembra che la massima aspirazione della sinistra riformista trovi espressione in una strategia in quattro mosse:
1) andare al voto nel 2023 “liberi dal vincolo soffocante delle coalizioni“ (meglio se dopo l’eliminazione di quel residuo di maggioritario che c’è nella legge elettorale in vigore); così potendo, il maggiore partito della sinistra, avere il tempo di “pensare a se stesso“, ricostruendo il proprio profilo ideale e programmatico.
2) Prendere con sollievo atto, dopo il voto, che non ci sono, nel nuovo Parlamento, né una maggioranza, né una minoranza politicamente omogenee ( la classica profezia che si autoavvera).
Quindi, 3) dare vita a un governo presieduto da una personalità terza (il massimo sarebbe Draghi, ma – in mancanza- da qualcuno che vagamente gli assomigli, purché non abbia partecipato alla competizione elettorale), ed appoggiato sia da forze politiche di centrosinistra, sia da forze politiche di centrodestra ( il “centro“,per definizione, ne uscirebbe valorizzato).
Tutto ciò consentirebbe 4) che il PD, nato per essere il partito asse dell’alternativa di governo al centrodestra, decisa dagli elettori, possa continuare ad essere, anche nella prossima legislatura, il “partito del sistema“, presente in ogni soluzione di governo, a garanzia dell’ancoraggio del paese all’Europa, all’atlantismo e…al principio di realtà.
Intendiamoci: che questa legislatura, apertasi con l’elezione di un Parlamento dominato da due forze diversamente populiste, si concluda con ben due anni di buon governo -sia nella gestione della pandemia, sia nella predisposizione del PNRR e nell’avvio della sua attuazione, sia nella riacquisita credibilità internazionale-, ha del miracoloso.
Ed è impossibile negare che questo “quasi miracolo“ sia stato il frutto-oltre che della lungimiranza del Presidente Mattarella e della disponibilità e del credito di Draghi- anche della estrema duttilità tattica delle forze della sinistra riformista, da IV al PD: c’era da sbarrare la strada al Salvini del Papeete; da vaccinare tutti nel più breve tempo possibile, sostenendo le forze produttive e i più deboli; da progettare ed attuare un PNRR che coniugasse veramente investimenti e riforme…
La possibilità stessa di aprire un vero ciclo di governo riformista era dunque, nell’immediato, indissolubilmente legata prima a una spregiudicata iniziativa di movimento, che isolasse all’opposizione il Salvini dei “pieni poteri“ e dell’euro “non irreversibile“ (il Conte2); e poi all’impegno per sostenere il tentativo di Mattarella di dar vita ad un governo di grande coalizione, per mettere in sicurezza il Paese e realizzare le riforme previste dal PNRR.
Resta ancora un anno di lavoro, e il Governo sembra volerlo utilizzare non per ridimensionare, ma per rafforzare la sua iniziativa di cambiamento, dopo la pausa per la elezione del Presidente: i partiti della sinistra riformista -dalla giustizia alle concessioni balneari, dalla politica energetica alla promozione della concorrenza- hanno ancora molto da fare, per sostenere le ambizioni riformatrici, del Presidente del Consiglio (che sono, o dovrebbero essere, anche le loro).
Non possono però affrontare le elezioni del ‘23 con l’obiettivo strategico di… ripetere per anni la situazione attuale. Non solo perché Draghi, “se vorrà, si troverà da solo un altro lavoro”. Ma anche e soprattutto perché, nel 2023, dopo due anni di collaborazione di governo con Forza Italia e Lega, rafforzata dalla comune scelta di rieleggere Mattarella Presidente, verranno meno sia lo “stato di eccezione“ che ha motivato le scelte compiute in questa legislatura, sia la possibilità di fondare il rapporto con gli elettori – nella ormai iniziata la campagna elettorale – sul solo impegno ad impedire che governino forze “pericolose“ per la collocazione internazionale dell’Italia e per la stessa democrazia.
Certo, alla stazione dove stava in attesa Salvini, è passato un treno comodo, diretto alla piena legittimazione della Lega come forza di governo e di Salvini come leader dell’intero centrodestra (il treno della possibilità di farsi promotore, con tutta la maggioranza di governo, della elezione di Draghi a Presidente). Che Salvini non sia salito su quel treno (anzi, che abbia cocciutamente cercato di salire su quello del “stavolta tocca a noi“, chiaramente rivolto verso i robusti respingenti di un binario morto), non è però una buona ragione per ritenere che l’esperienza del Governo Draghi possa essere chiusa tra due parentesi, facendo tornare tutti i protagonisti alla casella di partenza (quella della reciproca delegittimazione).
Gli elettori non capirebbero. Anzi, si sentirebbero presi in giro. Come si dice a Genova: “Sono come i ladri di Pisa: di giorno fingono di litigare furibondamente e di notte governano assieme”. E assumerebbero comportamenti elettorali conseguenti.
Lungi dal rassegnarsi a vivacchiare nell’eterno ritorno di una emergenza-economica, pandemica o democratica che sia-, cui far corrispondere soluzioni anomale, il principale partito della sinistra italiana e i riformisti raccolti in formazioni minori devono riproporre la loro “vocazione maggioritaria“, rivolgendosi agli elettori con fiducia sulla loro capacità di comprendere e sostenere una proposta che non accetti di schiacciarsi sul quotidiano, ma guardi alla soluzione dei grandi nodi – da quello demografico a quello ambientale, da quello della qualità del capitale umano a quello di un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato – nel medio e lungo periodo, attraverso un vero e proprio ciclo di governo riformista, dotato della legittimazione (e della forza) che deriva dalla consapevole scelta degli elettori per un programma ed una leadership formatisi prima del voto.
C’è il rischio di perdere? Certamente. Ma la tranquilla determinazione ad affrontarlo dovrebbe essere il frutto migliore di questa lunga fase di governi “anomali”, formati sotto l’urgere delle emergenze: non è un nemico da tenere ad ogni costo lontano dal governo quell’avversario con cui hai condiviso per anni la responsabilità di dirigere il Paese.
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)