di Giovanni Cominelli
L’imprevista tempesta perfetta della campagna elettorale e delle candidature ha scoperchiato, d’improvviso, i tetti dei partiti. E si sono visti degli interni malridotti. Nei partiti a conduzione personale e senza radicamento territoriale, i leader se la sono sbrigata in fretta: hanno scelto i fedelissimi. E’ il caso di Berlusconi, di Calenda, di Renzi, di Conte. Nei partiti a conduzione personale, ma radicati sul territorio – è il caso della Lega e parzialmente di FdI – il principio di fedeltà al capo è stato temperato dal principio di territorialità. Nei partiti con tradizione di radicamento territoriale e a conduzione correntizia, dove il segretario è una sorta di Re Travicello, designato per accordi di caminetto – il caso del PD – la faccenda delle candidature si è rivelata più tormentata.
Complessivamente, il processo di individuazione è apparso ai futuri elettori è demotivante, per usare un eufemismo.
Tuttavia, i mass-media e i social-media, se muovono da dati penosi, ma incontrovertibili, a volte hanno proposto delle interpretazioni dei fatti, che provengono dal qualunquismo populistico e illiberale. La politica dei partiti è presentata come “teatrino” – il brand viene da lontano! – mentre si esalta la maggiore rapidità ed efficacia della leadership personale.
Ovviamente, i giornali, soprattutto gli house-organ della Destra, hanno avuto una facile occasione da utilizzare: il tormentone offerto dal PD , tanto a livello nazionale quanto a livello territoriale.
Ragioniamo, dunque…
Scandalizzarsi che la politica sia divisa e che i partiti lo siano al loro interno è tanto ipocrita quanto decisamente illiberale. Poiché la società è sempre più complessa e frastagliata per interessi e valori, è evidente che la sua espressione politica debba essere plurale e frastagliata. Ciò vale, in primo luogo per il sistema dei partiti, ma anche per ciascun partito. Se la società civile è divisa, lo “deve” essere anche la politica. Se esiste una lotta sociale e culturale nella società, essa esiste anche nella politica e nei partiti.
Dunque, sì, i partiti sono articolati in correnti. Quella del “partito-comunità” è la favola di Biancaneve, raccontata tanto a destra quanto a sinistra. Di solito vela/disvela l’assoluta dominanza del “nostro caro leader”, del “timoniere”, ecc.! Le esperienze totalitarie del ‘900 e oltre hanno squadernato una gran varietà di “partiti-comunità”.
I problemi, tuttavia, incominciano proprio da qui. Se le correnti sono storicamente legittime, quali sono le fondamenta culturali di una corrente di partito? Una corrente è “necessaria” se, dentro una comune visione del tempo e della storia presente, piega le sue proposte programmatiche in una direzione, piuttosto che in un’altra. Le correnti di destra, di sinistra, di centro in tutti i partiti della Prima repubblica avevano, grosso modo, fondamenti di programma. Nel PCI erano vietate dal centralismo democratico, ma hanno funzionato di fatto almeno dal Congresso del 1966, ancorché definite pudicamente “sensibilità”: Ingrao a sinistra, Amendola a destra, Longo e poi Berlinguer al centro. In tutti gli altri partiti le correnti erano riconosciute, erano certamente rissose, ma tutte all’ombra di un “idem sentire” culturale.
Ora, è arduo sostenere che le correnti di partito di oggi abbiano la stessa dignità culturale. Laddove esistono – è il caso del PD – sono in numero sproporzionato rispetto alle idee, perché restano invisibili le loro reciproche differenze significative. Così, non avendo basi culturali identificabili, si sono ridotte a centri di contrattazione di posti di potere interni e di governo.
Il passaggio da correnti di cultura politica a gruppi di potere e camarille sta indubbiamente la caduta dell’orizzonte comune, che teneva insieme le differenze. Così, appena un gruppo entra in dissenso, se ne va. E’ stato, nel PD, il caso di D’Alema prima, di Renzi poi.
Ma la crisi culturale non basta a spiegare la degenerazione.
L’altra ragione che getta luce sul processo di balcanizzazione dei partiti è istituzionale. Benché i partiti siano i Padri fondatori della Repubblica, sono rimasti associazioni private, non regolate pubblicamente per legge. Cioè: non rispondono ai cittadini, ma solo agli iscritti, sulla base di Statuti “privati”.
Se i partiti sono il principale canale istituzionale di accesso dei cittadini alla cosa pubblica, questo canale si è riempito di detriti. I partiti si sono chiusi nel fortino della politica e hanno chiuso la politica in un fortino. Dal punto di vista dei cittadini sono soltanto delle “scatole nere”. Si è così avviato un processo vizioso di autoavvitamento: la crisi di identità e di culture è divenuta ingestibile per dei gruppi di potere autocentrati, staccati dalla società reale. In due cicli storico-politici successivi, prima con Berlusconi, poi con il M5S, si è tentato di mettere in piedi una nuova forma-partito, che consentisse di definire una nuova identità e di rispondere alla domanda di partecipazione dei cittadini. I tentativi sono falliti, perché i partiti a leader carismatico sono comunque rimasti scatole nere.
Se Giovanni Sartori teorizzava il paradosso che partiti non-democratici possono produrre, in competizione, una decente democrazia, il processo di involuzione è ormai così grave che quel paradosso non vale più: partiti non-democratici scoraggiano la partecipazione dei cittadini e espongono perciò la democrazia liberale a rischi crescenti.
C’è un nesso causale ormai evidente tra la natura istituzionalmente a-democratica dei partiti e l’incapacità dei gruppi dirigenti di rifondare culturalmente le proprie ragioni storico-politiche. Il caso oggi più clamoroso è quello del PD, lost in translation da qualche decennio. Ma lo stesso vale per il variegato mondo della Destra.
Da questo punto di vista, la legge elettorale Rosatellum – ma definizione più realistica sarebbe Ircocervum – è lo specchio perfetto di questa condizione: per quanto riguarda la Camera, riserva solo 147 seggi alla scelta degli elettori, mentre gli altri 245 e gli 8 all’estero sono decisi dai partiti; al Senato i numeri sono rispettivamente 74, 122 e 4. I partiti non l’hanno voluta cambiare. I cittadini non scelgono la maggioranza dei deputati e dei senatori e, in ogni caso, non scelgono il governo.
Così che valgono sempre meno gli appelli dei leader a votare il partito in nome di nuovi “domani che cantano” o per evitare catastrofici ritorni al passato. L’idea del “right or wrong, is my party” attraversa sempre meno la testa degli elettori e perciò anche la tecnica di voto a suo tempo suggerita di “turarsi il naso”.
Ci troviamo dunque prigionieri di un drammatico circolo vizioso: i partiti sono una delle istituzioni fondamentali della Repubblica, la loro è crisi della Repubblica. Ma, al contempo, sono asserragliati dentro la loro crisi, sono organizzati per impedire l’accesso alle forze di modernizzazione e di rifondazione che la società civile fa zampillare naturalmente dal proprio interno, grazie allo sviluppo delle forze produttive umane e alla globalizzazione. Sono divenuti sindacati politici di pezzi di società, che non vogliono fare i conti con il mondo reale con il mondo globale.
Una generale rifondazione istituzionale della democrazia della Repubblica è dunque necessaria. Ma chi la metterà in movimento? Dopo il 25 settembre, questo sarà il tema pubblico centrale del Paese. O, almeno, di chiunque si proclami riformista e liberale.
Editoriale da santalessandro.org, sabato 20 agosto 2022
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.