Intervista a Stefano Ceccanti
a cura di Francesco Lo Dico – Il Mattino
Il polemico ritiro di Minniti ha spiazzato gran parte dei renziani. Che ora si trovano tra l’incudine e il martello: privi di un candidato da sostenere all’interno del Pd, ma allo stesso tempo recalcitranti all’idea di passare armi e bagagli nel nuovo partito centrista che l’ex premier sembra ormai pronto a battezzare.
«A questo punto – dice con molta franchezza il deputato renziano del Pd, Stefano Ceccanti – molti di noi rischiano di trovarsi in mezzo al guado: da una parte un mezzo partito centrista un po’improvvisato, dall’altra un mezzo partito di vecchia sinistra che farebbe da satellite al M5s. Andrebbe trovato un candidato sostitutivo e speriamo seriamente di riuscirci. Altrimenti ci sarebbe un deficit di rappresentanza».
Che idea si è fatta dello strappo di Minniti?
«Minniti ha reagito male. Avrebbe potuto fare da argine a possibili uscite e continuare ad avere un ruolo rilevante anche se non avesse vinto. Probabilmente ha pensato che in questo tipo di scenario si sarebbe indebolito troppo».
Il problema però sembra un altro. In buona sostanza Minniti ha lasciato perché non ha capito il gioco dei renziani. Che senso avrebbe avuto sostenerlo, se l’idea era quella di fondare un nuovo partito di centro?
«Difatti Renzi sbaglia, l’idea di fondare un altro partito è insensata e molti di noi non la condividono perché avevamo accolto la candidatura di Minniti con convinzione. Ma allo stesso tempo sbaglia anche Minniti. Se l’idea era quella di provare a recuperare il voto moderato l’ex ministro avrebbe dovuto restare in campo a prescindere da quello che ha intenzione di fare Renzi. Se anche avesse perduto, Minniti avrebbe potuto far sentire la sua voce, e far pesare all’interno del partito la volontà di scongiurare un possibile accordo con i Cinque Stelle. Il suo ritiro non fa altro che incoraggiare l’idea di un partito autonomo».
E questo per voi renziani è un guaio: da una parte vi trovereste orfani di rappresentanza in un partito guidato da Zingaretti, ma dall’altra non vorreste lasciare il Pd per il nuovo partito di Matteo Renzi. Corretto?
«Proprio così, preferiremmo restare nel Pd come minoranza e incidere sulla linea del partito. È sbagliato concentrarsi su un’ottica di breve termine. Anche perché, per quanto mi riguarda, la scissione non è contemplata. Ecco perché insisto: serve un altro candidato nel quale molti di noi possano riconoscersi».
Sarà dura. Secondo molti il vero problema di Renzi è che non è disposto a essere minoranza di nessuno. Piuttosto che perdere, preferisce fondare un altro partito. È così?
«Non è una questione psicologica. Sarebbe fuorviante scomodare l’idea che Matteo sia afflitto dalla sindrome del numero uno. Il problema vero è che Renzi si è persuaso che all’orizzonte ci sia una crisi di governo che potrebbe portare a un’alleanza tra Pd e M5s dopo la finanziaria. È un’ipotesi che vuole assolutamente scongiurare. Ecco perché probabilmente ha accelerato sul partito autonomo».
Se il timore è questo, che senso ha fondare un partito destinato a non toccare palla in Parlamento, prima ancora che questa ipotetica saldatura con il M5s possa realizzarsi?
«L’idea è che la maggior parte degli elettori del Pd condividano il suo fermo rifiuto a un asse con il M5s».
Però il prezzo sarebbe una rottura definitiva con il Pd: non resterebbe che allearsi con Forza Italia. Che prospettive avrebbe un partito del genere?
«È tutto molto contorto, in effetti. Difficilmente una forza del genere avrebbe appeal, una volta segnata la rottura con il Pd. Ammesso che sia quella descritta, l’iniziativa di Renzi mi sembra piuttosto improvvisata e non all’altezza delle sfide italiana ed europea. Bisogna allargare e non restringere, così rischiamo di tornare di nuovo a Ds e Margherita, vent’anni dopo».
Potrebbe essere Rosato il nome giusto per uscire dall’impasse?
«Non è il caso di farne una questione di nomi, in questo momento. Ciò che conta davvero è la volontà di trovare un altro candidato».