di Alberto De Bernardi
Sabato 7 si è svolta l’Assemblea nazionale del PD che arriva a questo appuntamento stordito da due gravi sconfitte elettorali ma soprattutto senza una bussola e un capitano in grado di indicare una rotta.
Un sommesso consiglio di un militante di base
In questi tre mesi però non solo il mondo della politica italiana è cambiato profondamente per la vittoria del nazionalismo antieuropeista rappresentato dalla coalizione grilloleghista, ma anche si è assistito a un intenso lavorio di medici di tutte le specializzazioni che si sono accalcati intorno al lettino del malato generosi nel fornire ricette di ogni tipo. Questo lavorio ha fatto indubbiamente breccia nel gruppo dirigente del partito stretto intorno a Martina creando una situazione fortemente schizofrenica, nata da letture occasionali e parziali della sconfitta che risentono fortemente dall’essere debitrici di tutte quelle culture obsolete della sinistra italiana che sopravvivono seppur minoritarie nel PD.
L’obbiettivo: far tornare indietro l’orologio della storia
L’obbiettivo è chiaro: “derenzizzare” il PD non significa togliere di mezzo un leader scomodo, ma tentare di rimettere in discussione la collocazione di uno dei più grandi partiti riformisti d’Europa nella cultura liberalsocialista, faticosamente intravista da Veltroni all’atto della fondazione del partito, ma che solo Renzi ha trasformato nell’identità, certo ancora debole e quindi reversibile, largamente maggioritaria al suo interno.
L’obbiettivo è fare tornare indietro l’orologio della storia, rimettendo il Pd nel vecchio alveo socialdemocratico – anche questo mal elaborato dagli eredi del Pci e anche da quelli della cultura cattolicosociale. L’insieme delle frasi fatte che ricorrono nelle prese di posizione dei vari Cuperlo, Orlando, ma anche D’Alema e Speranza – “bisogna tornare a fare la sinistra”, “bisogna rifondare il centro-sinistra”, “bisogna tornare tra la gente occupandoci del sociale” – nascondono questa intenzione regressiva e restauratrice. Ma come è possibile che chi ha preso il 3% alle elezioni, fallendo tutti insieme i suoi obbiettivi, insieme a quelli che rappresentano una modestissima minoranza dentro il PD possano costituire il bacino di idee, competenze e valori da cui attingere per risolvere la crisi del Pd?
Un mondo che non c’è più
Sembra che si avveri la fosca profezia del vecchio Marx, le mort saisit le vif, perché è proprio l’idea di sinistra che viene proposta a appartenere a un mondo che non c’è più.
Chi non crede più che la democrazia liberale e progressista possa garantire un futuro migliore del presente e si affida al messaggio nazionalista e populista non verrà certo riconquistato se gli riproponiamo le vecchie ricette dell’universalismo progressista elaborate nel secolo scorso e travolte dalla crisi della globalizzazione. La sinistra non sta più di casa in questo vecchio mondo e per ritrovare se stessa deve guardare avanti e non indietro declinando la sua tavola di valori imperniata sulla libertà e l’eguaglianza in un orizzonte progettuale nuovo all’altezza delle nuove paure del nostro secolo: come fecero gli antifascisti negli anni Trenta e le forze progressiste nel secondo dopoguerra. Hic Rodus hic salta qui siamo, ma a dire il vero ci siamo dal 2013 e attorno a questo inevitabile salto – combattuto, evitato, impedito, negato o voluto – che si svolta la guerra fratricida dentro il Pd.
La soluzione statalista
Men che meno tornerà a guardare verso la sinistra se il progetto del “ritorno al passato” si riduce a cancellare il “renzismo” per favorire la frattura del M5S lungo il crinale destra-sinistra di novecentesca memoria, illudendosi di allearsi con la sua sinistra per proporre, tra l’entusiasmo della Cgil e dei Cobas, e magari dell’Anpi, una soluzione statalista, assistenzialista, egualitarista e magari un po’ sovranista (le ombre di Malencon e di Corbyn aleggiano in questo incubo).
Un’alleanza repubblicana
Questa soluzione non è solo la fine del Pd, ma una tragedia per l’Italia, che va sventata con tutte le forze per tentare di costruire intorno al Pd che ha mantenuto integro il suo profilo ideale e progettuale una vasta alleanza “repubblicana” – qui Calenda ha ragione – per combattere la deriva populista e nazionalista e ridefinire un perimetro politico capace di proporre una nuova vocazione maggioritaria.
Nulla è impossibile se riusciamo ad uscire dalle secche di una discussione a encefalogramma politico piatto, se allontaniamo l’incubo del ritorno del “dalemismo” come malattia senile della sinistra italiana e abbiamo il coraggio di “tornare ai fondamentali” su cui e nata Libertà Eguale e proporli come una buona risorsa politica da mettere al servizio della rinascita del PD.
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Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019
Nella storia del comunismo italiano, a cominciare dal compromesso storico dei tempi di Enrico Berlinguer e Aldo Moro, si sono sempre verificati dei momenti di “crescita” intesa come cambiamento, adattamento al momento storico. Come nella crescita personale di ognuno di noi, ci sono delle fasi in cui avvertiamo uno “scatto” di crescita, maturità. Coloro che osteggiano Renzi non ne sono consapevoli