Ripubblichiamo per la sua attualità l’articolo già apparso su Il Foglio del 26 luglio scorso
Il blitz del 20 luglio in Senato potrebbe rivelarsi la Pearl Harbor dei populisti italiani. I resti del Movimento 5 stelle, insieme a una Lega Salvini perplessa e divisa, che nell’attacco ha deciso di ricongiungersi e accodarsi alla destra sovranista di Fratelli d’Italia, insieme al relitto ormai alla deriva della corazzata berlusconiana, pensano di avere colpito a morte il centro di comando e controllo e il laboratorio sperimentale più avanzato della cultura politica italiana, la versione contemporanea e proiettata al futuro del riformismo di matrice degasperiana: europeista e atlantista, liberale e laburista, meritocratico e solidale, amico della scienza e attento alla sostenibilità dello sviluppo, cultore dei diritti tanto quanto custode dei doveri. E invece, come accadde ai giapponesi dopo quel “giorno dell’infamia” del 1941, potrebbero scoprire di avere solo risvegliato bruscamente un gigante addormentato e aver posto quindi le premesse di una loro tragica sconfitta strategica.
Lo si era intravisto, il gigante, nella vasta mobilitazione dei giorni immediatamente precedenti l’attacco a sorpresa: un grande pronunciamento popolare, civile, sociale, culturale, molto prima e più che partitico, a sostegno della prosecuzione dell’azione del governo Draghi. “La mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni e territori a favore della prosecuzione del governo è senza precedenti ed impossibile da ignorare”, ha detto tra gli applausi il presidente del Consiglio nel suo discorso in Senato. “Ha coinvolto il terzo settore, la scuola, l’università, il mondo dell’economia, delle professioni, dell’imprenditoria e dello sport: si tratta di un sostegno immeritato, ma per il quale sono enormemente grato. Due appelli – ha proseguito, sempre tra gli applausi dei senatori, un Draghi inedito, o perlomeno inusuale nella carica di empatia tutta politica – mi hanno colpito in modo particolare: il primo è quello di circa duemila sindaci, autorità abituate a confrontarsi quotidianamente con i problemi delle loro comunità. Il secondo è quello del personale sanitario, gli eroi della pandemia, verso cui la nostra gratitudine è immensa”.
Una mobilitazione dunque “senza precedenti e impossibile da ignorare”: eccolo il gigante, bruscamente risvegliato. Il popolo che prende la parola contro il populismo. E a favore della prosecuzione di uno straordinario esperimento riformista. Il popolo ha perso e i populisti hanno vinto, in parlamento. Ma l’inevitabile scioglimento delle Camere, disposto (Costituzione alla mano) dal presidente Mattarella, dà ora al popolo la parola, la parola che conta, l’ultima parola. Alla sola condizione che al popolo sia data la possibilità, effettiva e non solo teorica, dunque politica e non solo giuridico-formale, di decidere.
Il gigante, apparso improvvisamente sulla scena, può infatti, altrettanto improvvisamente, scomparire, lasciando campo libero alle forze, nazionali e non solo, che hanno colpito e affondato il governo Draghi e tutto ciò che quel governo significava: per l’Italia, per l’Europa, per lo stesso futuro delle democrazie, sotto attacco da parte dei regimi autocratici. O può invece alzarsi e scendere in campo, ferito ma proprio per questo ancor più forte, determinato e perciò determinante. Perché ciò avvenga, è necessario che il mandato di Draghi, correttamente e doverosamente rimesso nelle mani del Parlamento e poi in quelle del presidente della Repubblica, sia ora affidato, per il giudizio definitivo e inappellabile, al popolo sovrano.
E’ necessario che siano gli italiani a decidere, col loro voto, il destino del governo e dell’agenda Draghi. Perché questo sia possibile, è necessario che gli italiani che vogliono votare la fiducia a quel governo, a quell’agenda e al leader che li incarna, possano farlo con la scheda elettorale. Nessuno può dire oggi se si tratti o meno della maggioranza degli italiani. Certamente si tratta di milioni di cittadini elettori. Per stabilire se sono di più o di meno dei contrari, ci sono per l’appunto le elezioni, che è innanzi tutto a questa decisiva domanda che, per avere un senso concreto e non astratto, dovrebbero rispondere.
Nelle forme e nei modi che riterrà opportuni e appropriati, per il bene supremo dell’Italia (e dell’Europa) e per rispetto sostanziale e non solo ossequio formale della sovranità popolare, Mario Draghi deve dunque lasciarsi trovare dagli elettori: alla testa non dell’ennesimo, inutile e anzi dannoso, partito personale, ma di una grande alleanza trasversale, di forze politiche, movimenti sociali, esperienze civiche, energie imprenditoriali, risorse intellettuali e morali, unite dall’obiettivo comune, al quale subordinare ogni interesse parziale, partitico e particolare, di proseguire l’azione e portare a termine il programma incompiuto, perché bruscamente e irresponsabilmente interrotto, del governo che porta il suo nome. In un certo senso glielo deve, agli elettori, tanto più perché li ha chiamati direttamente in causa nel passaggio parlamentare decisivo per le sorti del suo governo.
“All’Italia – ha detto Draghi nel suo discorso in Senato – serve un nuovo patto di fiducia sincero e concreto, come quello che ci ha permesso finora di cambiare in meglio il paese. I partiti e voi parlamentari – ha chiesto tra gli applausi di solo una parte della sua ormai ex-maggioranza – siete pronti a ricostruire questo patto? Siete pronti? Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi e che si è poi affievolito? Siamo oggi in quest’aula, sono qui oggi in quest’aula, a questo punto della discussione, solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande la dovete dare non a me, ma a tutti gli italiani”. La risposta di buona parte della ex-maggioranza è stata negativa. Per la verità espressa in modo implicito, non votando pur dichiarandosi presenti alla votazione (ennesima contorsione del partito di Conte), o assentandosi dall’aula (nel caso delle destre). Un silenzio comunque eloquente. Del quale Draghi ha preso atto, col doveroso rispetto imposto dalla Costituzione di una Repubblica parlamentare, confermando le sue dimissioni. Per questo ha reagito con giusto risentimento all’accusa, tanto sleale e insincera quanto infondata, da parte di Giorgia Meloni, di avere chiesto i “pieni poteri”. Draghi non ha passato il Rubicone, non ha preteso di proseguire l’azione di governo, magari forzando come assenso il silenzio vigliacco di chi aveva espresso la sua non-fiducia. Tutto al contrario, il presidente del Consiglio ha correttamente riconosciuto il primato del parlamento proprio ponendo al parlamento una domanda chiara e inequivocabile: siete pronti a confermare la fiducia? Proprio la chiarezza della domanda, ha reso eloquente, e in senso negativo, il silenzio imbarazzato dei tanti che non hanno voluto rispondere.
E tuttavia, Draghi ha coinvolto il popolo. Dicendo ai rappresentanti del popolo che era al popolo che dovevano la risposta alla domanda che lui aveva loro posto: “Questa risposta a questa domanda la dovete dare non a me, ma a tutti gli italiani”. In un certo senso, si è messo tra il popolo e il Parlamento: non sul piano istituzionale, dove la correttezza è stata ineccepibile, ma su quello politico. E’ come se avesse lanciato, non al parlamento come istituzione, al quale si è inchinato, ma alle forze politiche parlamentari che lo stavano sfiduciando, una sfida democratica: è al popolo che, in definitiva, dovete rispondere. Una sfida non solo legittima, ma anche salutare, per la democrazia italiana: è ora che il confronto, duro proprio perché vero e decisivo, tra populismo e riformismo, esca dalla sfera esclusiva della “moral suasion” delle istituzioni di garanzia, poste a presidio non solo della correttezza democratica, ma anche del rispetto del principio di realtà, e sia riconsegnato all’ambito fisiologico e naturale della lotta politica.
Il riformismo deve battere il populismo sul campo, dimostrando di essere capace di vincere nel popolo e con il popolo. Non può limitarsi a giocare di rimessa, confidando nel fallimento del populismo alla prova di governo. Perché nessuna democrazia può sopravvivere al divorzio duraturo, reiterato, in definitiva sistematico, tra suffragio universale e principio di realtà. Così come è ora che la politica italiana torni ad essere abitabile ed abitata anche da personalità riconosciute come statisti. In tutte le democrazie sane, gli statisti emergono dalla e nella lotta politica. E, di nuovo, nessuna democrazia può sopravvivere al divorzio sistematico tra consenso elettorale e qualità della rappresentanza. Cavour fu scelto dal re. De Gasperi dal popolo. Nel suo storico discorso al Senato, Draghi ha dimostrato che al paese non basta più un Cavour, serve un De Gasperi. Uno statista scelto dal popolo. E’ pronto presidente a lasciarsi trovare dagli italiani?
Consigliere provinciale a Trento e presidente del gruppo del Partito Democratico del Trentino. Componente della Presidenza di Libertà Eguale.
Senatore dal 2001 al 2018, è stato vicepresidente del gruppo del Partito democratico in Senato, presidente della Commissione Bilancio e membro della segreteria nazionale del Pd.
E’ stato presidente nazionale della Fuci, sindacalista della Cisl, coordinatore politico dei Cristiano sociali e dirigente dei Democratici di Sinistra.
Tra gli estensori del “Manifesto per il Pd”, durante la segreteria di Walter Veltroni è stato responsabile economico e poi della formazione del partito.