di Giovanni Cominelli
Quando Renzi comparve sulla scena nazionale, all’insegna della “rottamazione”, sfidando Bersani nelle primarie del 2 dicembre 2012 e perdendo la sfida, parve a molti di sinistra un nuovo inizio.
A chi parve? A chi pensava che la sinistra italiana, di provenienza comunista-socialista-
E così continua ad essere. La riforma della Pubblica Amministrazione e la riconduzione del potere giudiziario nei limiti della democrazia del check and balance erano la prima necessaria conseguenza.
Restituire alla politica la sua funzione del rappresentare-decidere avrebbe creato le condizioni istituzionali per la rifondazione del sistema dei partiti, ormai insidiati da vicino dall’insorgenza populista grillina.
Insomma: si voleva una democrazia governante e decidente. Chi puntò su Renzi, sperò in una sinistra liberale, nella quale il socialismo liberale di Rosselli si fondesse con il popolarismo cattolico-liberale sturziano e degasperiano, liberato, quest’ultimo ormai, dal “pericolo comunista”.
Del resto, Renzi veniva dall’ambiente cattolico: scout, “ Margherita”, una tesi di laurea su La Pira… Vero è che la “rottamazione” annunciata da Renzi era la sorella gemella delle parole d’ordine grilline, che, a loro volta, arrivavano dall’onda alta dell’anti-politica di sinistra degli anni ’90 e dell’anti-casta di destra e di sinistra, la cui fusione fisica apparve ben evidente davanti all’Hotel Raphael in quel famoso 30 aprile 1993 delle monetine.
La metodologia della rottamazione era fortemente ambigua, ma conteneva un nocciolo di verità: le idee nuove non possono camminare sulle gambe di persone, che fino a ieri hanno sostenuto “idee vecchie”. Idee nuove, persone nuove! Così com’era vero che una “casta” si fosse creata.
Il PD di Veltroni era nato al Lingotto di Torino il 14 ottobre 2007 dalla giustapposizione di due vecchie culture – quella post-comunista e quella post-democristiana – e dei corrispondenti vecchi gruppi dirigenti.
Si trattava di un mix di statalismo, di assistenzialismo, di conservatorismo istituzionale, tenuto insieme dalla mitica cultura dorotea della mediazione, che si muove tra il cinismo amorale e il realismo pragmatico, cui i post-comunisti si erano da subito “dorotea-mente” adeguati.
La sintesi perfetta si incarnò in Dario Franceschini, già vice di Veltroni, che fu eletto segretario il 21 febbraio 2009: “un democristiano alla guida del PCI”, questa la battuta acida, ma pregnante, di Renzo Lusetti. L’altra, più feroce, fu dello stesso Matteo Renzi: “dal disastro al vice-disastro”.
Sintesi fragile quella di Franceschini, perché chi poteva essere più adatto a guidare il PCI se non un post-comunista? Nell’autunno, infatti, gli subentrerà Bersani. Matteo Renzi ricompare il 15 dicembre 2013.
Questa volta vince le primarie e diventa segretario del PD. Ma il tempo per costruire cultura politica e nuova classe dirigente non se lo dà.
Il 17 febbraio 2014 diventa presidente del Consiglio, succedendo all’incolore e invelenito Letta. Se la questione delle persone nuove viene risolta (?) con la creazione di un ristretto “giglio magico” parallelo, abbandonando il partito alle sue vecchie logiche, quella dell’elaborazione di nuova cultura politica viene rimandata a data da destinarsi.
Cultura politica: un’idea della forma-Stato, della società civile, della forma-politica/partito e, soprattutto, conoscenze/competenze specialistiche per governare. Cultura politica: una visione dell’Italia, sullo sfondo della sua storia e della geopolitica presente.
Come capo del Governo, Renzi si presentò come il nuovo “uomo del fare e del nuovo”: “l’Italia non deve essere il luogo per ricordare, ma per fare, non è un museo, ma un Paese dove le cose accadranno di nuovo”. Il “fare” non fu fatto male. Entro certi limiti, non tutti dovuti a lui. Salvo lo scivolone fatale del processo con cui arriva alla designazione del candidato per la Presidenza della Repubblica, rompendo con Berlusconi, con ciò pregiudicando lo schieramento favorevole al SI referendario del 2016. E salvo quello l’errore finale di legare all’esito del referendum del 2016 il destino del governo e quello personale, con rodomontata suicida: “se perdo, lascio la politica!”.
Ma “la barca del fare” si rivela troppo leggera e affonda ben presto. Sì, la cultura c’è, ma – osserva Giorgio Caravale nell’eccellente libro “Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni” – principalmente nella forma del consumo estetico e retorico-emozionale.
Alla cultura si chiedono emozioni, non conoscenze. Dunque: info-tainment e citazioni di filosofi e scrittori rubate alle cartine avvolgenti dei “baci perugina”. In ciò Renzi riflette lo spirito del tempo, di una politica senza radici e senza storia, schiacciata sulla dimensione del presente.
Riflette, come tutta la classe politica dirigente di questi ultimi trent’anni, la fine delle visioni del mondo e la dittatura soffice, ma invasiva, del presente. La storia culturale del mondo e del Paese diviene una sorta di Amazon, da cui far arrivare in tempo reale, cioè adesso, frasi ad effetto, immagini, lampi di pensiero, brillanti metafore.
Venuto meno il provvidenzialismo cristiano e marxista, base ideologica profonda della DC e del PCI – il PSI di Craxi non era più riscaldato dal “sole dell’avvenire” – che finalizzava l’azione dei singoli e conferiva un senso, i post-dc e i post-pci hanno gettato l’ancora nei porti del potere e lì le loro barche “oscillano immobili al triste vento”.
Hanno perso il loro passato, la sostanza della politica è diventata il management del presente, la politica à la carte. Il presente come trappola. Mentre ancora Veltroni cercava di costruirsi un “Pantheon” alle spalle, popolato di dei reciprocamente incompatibili come quelli dell’Olimpo, come molti hanno impietosamente fatto notare… mentre una parte del cattolicesimo democratico continua a cercare “le spalle dei giganti”, di cui parlava Bernardo di Chartres, dalle quali traguardare il mondo, Renzi – ma ancor di più Schlein – vi hanno rinunciato completamente. D’altronde, non c’è bisogno di salire su nessuna spalla, se l’unica preoccupazione è quella di dove mettere un piede dopo l’altro, senza inciampare.
Bene, potrebbe osservare criticamene il lettore, fin qui l’analisi E allora? La risposta facile e anche leggermente opportunistica sarebbe: non tocca a me dire!
Ma dovendo dire, sì, qualche ipotesi alternativa rispetto alla deriva in corso ciascuno ha la responsabilità di pensarla.
Sì, i partiti non producono più cultura e sono incapaci di connettersi ai centri delle competenze, se non strumentalmente per brevissime stagioni; sì, il sistema di istruzione/educazione – lo abbiamo scritto più volte – è sempre meno in grado di trasmettere il sapere di civiltà e di formare il carattere dei nostri ragazzi; sì, il sistema universitario assorbe investimenti per autoriprodursi, ma il livello di preparazione dei giovani si abbassa… Questo sul nostro lato, quello nazionale.
Ma sull’altro, su quello europeo e mondiale la storia torna a bussare alle nostre porte di provincia con il dilemma tragico della pace e della guerra. La Belle époque post 1945 è finita.
Le persone tornano a sentire il bisogno di legami familiari, sociali, civili e insieme di identità. Le pulsioni identitarie e comunitarie sono in crescita. Esse segnalano il bisogno di un Paese di “sentirsi popolo-nazione”.
La Destra ha riproposto il “Dio-Patria-Famiglia”. Si tratta di tre metafore, il cui contenuto valoriale la Destra per prima non prende realmente sul serio. Ma la sinistra ancora meno.
Le questioni di collocazione internazionale del Paese nel mondo – l’essere Nazione – si intrecciano con le questioni etiche e antropologiche. È su questo terreno che occorre pensare. A condizione che i cattolico-popolari abbandonino la lamentela catto-masochista sulla fine del ruolo politico dei cattolici e i liberal-riformisti smettano di pietire spazi. Pensare fortemente e dire ad alta voce la verità che ciascuno crede in buona fede di intravedere è l’unico modo per costruire spazi. Si chiama coraggio della battaglia per la verità.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.