di Claudio Petruccioli
Sono anche io convinto che in queste ultime settimane – precisamente dal discorso del Presidente della Repubblica la sera del 2 febbraio – ha preso avvio una riconversione di cui non si possono prevedere gli esiti ma tutt’altro che episodica e, con ogni probabilità, assai profonda: sia sul terreno governativo che su quello politico, riguardante i soggetti della politica, i partiti; e anche sul terreno istituzionale. Quest’ultimo aspetto è meno oggetto di attenzione e di interesse nel dibattito pubblico. L’Italia è una Paese nel quale non si riesce a portare a compimento le riforme istituzionali e costituzionali, né con le bicamerali né con i referendum; i cambiamenti nell’assetto e nel funzionamento delle istituzioni tuttavia ci sono e talvolta anche rilevanti, ma “in via di fatto” come si dice.
Considero molto importante questa riconversione da un punto di vista che mi sento di definire storico-politico; con l’occhio al Pd ma non pensando solo al Pd. Ritengo che con le dimissioni di Zingaretti abbia subito una sconfitta definitiva una linea che ha fatto molto male alla sinistra e molto male al Pd. Parlo di una linea e non di persone, sia ben chiaro; anche se, poi, la linea è stata sostenuta e interpretata da persone.
È una linea con una lunga storia che mi guardo bene dal ripercorrere qui, neppure per cenni. Prendo spunto da un giudizio che ha larghissimo corso, ripetuto a proposito e a sproposito; il giudizio – che tutti conoscete – di D’Alema sul Pd “amalgama mal riuscito”. È vero: il Pd è un amalgama mal riuscito e lo è, alla fine dei conti, perché è prevalsa quella linea che io penso e spero sia stata definitivamente sconfitta. È la linea dello stesso D’Alema, per cui il Pd è considerato un aggregato dei partiti preesistenti; come del resto prima l’Ulivo e altre forme di associazione intorno alla organizzazione che raccoglieva il più consistente residuo delle forze che provenivano dal Pci.
Si può risalire al seminario di Gargonza; D’Alema fu chiarissimo: l’Ulivo non poteva essere altro che la somma di quello che restava del Pci e di quello che restava della Dc. Tanto è vero che chiese agli astanti se non si fossero accorti che quella alleanza arrivava in grande ritardo e che rispetto al 1976 aveva perso non so quanti milioni di voti. I protagonisti, i soggetti, le dinamiche politiche erano, per lui, sempre gli stessi. Secondo questa visione il Pd – scusate lo schematismo per brevità – non poteva e non doveva essere altro che la somma dei Ds (fondamentalmente gli ex-Pci) più la sinistra Dc che si mettevano insieme, diventavano “coinquilini”. Era l’eredità, l’aggiornamento di quel che restava del compromesso storico che non si era realizzato vent’anni prima.
Ho usato il termine “linea” ma si tratta di qualcosa di più ampio e generale; è un punto di vista, un modo di guardare le cose e i fatti che riguarda tutto, si proietta su tutto: sulla idea di sinistra, certamente, ma anche sulla lettura della storia d’Italia, degli assetti istituzionali della Repubblica. E contiene un giudizio sulla crisi, sul tornante di fine anni ’80 – primi ’90, come contiene la cultura che ha spinto alcuni a promuovere e altri a contrastare il passaggio dal proporzionale al maggioritario. Non la faccio lunga: è una linea che ha vinto – per quanto mi riguarda anche su di me – è prevalsa negli ultimi 25/30 anni anche in passaggi (come la costituzione dell’Ulivo o il varo del Partito democratico) che sembrava andassero o potessero andare in direzione diversa. Ciò ha fatto pagare prezzi molto alti alla sinistra; e ha impedito che la crisi italiana trovasse soluzione in una riforma e in un consolidamento delle istituzioni della democrazia in modo da garantire una maggiore efficienza e funzionalità dei governi in un sistema aperto alla competizione, alle alternative e alle fisiologiche alternanze.
Ho in mente l’apologo al quale ricorse D’Alema a Orvieto nell’ottobre del 2006 nel corso del seminario sullo statuto quando si varò di fatto il Pd. Intendeva rispondere alle riserve e alle obiezioni che si erano manifestate nella discussione, quelle che poche settimane dopo – per motivare il suo rifiuto – avrebbe ripreso Mussi a Firenze nel congresso in cui i Ds decisero di confluire nel Pd. In una recente intervista al manifesto Mussi ha sottolineato – bisogna dire con buoni motivi dal suo punto di vista – che le dimissioni di Zingaretti gli hanno dato ragione.
“Cari compagni – ecco l’apologo come lo ricordo – vi capisco; non c’è dubbio stiamo facendo una cosa nuova. Saliamo su un aereo che, come tutti gli aerei per volare ha bisogno di due ali: una destra e una sinistra. Però non dimenticate che gli aerei hanno anche una cabina di pilotaggio”. Come dire che la rotta la decide chi sta lì. Infatti la crisi esplose quando un intruso (Renzi) entrò in quella cabina e ne derivò tutto quello che sappiamo.
Non nascondiamoci dietro un dito. Forse Zingaretti queste cose può non capirle, non averle capite e quindi non le ha tenute presenti quando ha voluto spiegare perché si è dimesso. Oggi ho letto un articolo di Claudio Martelli sul sito dell’Avanti! in cui dice le stesse cose che sto dicendo io. Zingaretti è stato considerato come il ritorno nella cabina di comando di quelli che devono starci, perché altrimenti – in base a tutta la visione che ho richiamato – quello lì non è più un partito della sinistra. E quando si è visto che chi era entrato nella cabina di pilotaggio forse non aveva molta dimestichezza con i comandi, gli si è affiancato un pilota di lungo corso – Bettini – con il compito di definire la rotta con più chiarezza.
Questa linea di pensiero e di condotta ha subito – secondo me – una sconfitta definitiva; intendo dire che, dopo Bersani e Zingaretti non ci sarà un terzo che, a seguito di una fase considerata travagliata e di sbandamento, ripeterà la stessa operazione. Non avverrà perché ne va di mezzo la sopravvivenza stessa del Pd. Penso che Letta lo abbia capito; e, comunque è questo il motivo che ha portato Letta ad avere l’unanimità da un’assemblea in cui la larga maggioranza proviene dalla lista di Zingaretti.
Il Pd ha fatto e fa grandi errori e ne farà ancora, ha tanti difetti che non sarà facile correggere; ma proprio in questa circostanza abbiamo avuto la dimostrazione più chiara che il posizionamento del Pd è impossibile da scalzare. Risulta, per altro verso, dalla stessa vicenda di Renzi. Non c’è dubbio che egli disponga di un acuto intuito politico, che abbia coraggio e tenacia in modo da raggiungere con la sua azione successi anche rilevanti. Ma anche le sue intuizioni e le sue iniziative sono diventate operative e incisive nel momento in cui hanno agito nel Pd e sul Pd e lo hanno indotto a prendere le posizioni che alla fine ha preso; che è stato capace di prendere per le energie che ancora lo alimentano ma forse soprattutto per istinto di sopravvivenza. Cosa che, ai miei occhi è assolutamente significativa a conferma della forza di posizionamento che ho richiamato.
È una constatazione che vale per la crisi dell’estate 2019, con il passaggio dal Conte 1 al Conte 2, come per le vicende di adesso. Certo c’è stato, decisivo, il fortissimo perno istituzionale costituito dall’asse Mattarella-Draghi che è, poi, l’asse Quirinale-Europa; asse che sta diventando importantissimo per il governo dell’Italia e, per certi versi, anche per il governo dell’Europa. Questo dato che fa capire la portata delle innovazioni di fatto in corso negli assetti istituzionali.
Io leggo così l’avvento di Letta al vertice del Pd; non so quale sia la sua lettura ma penso che questo ragionamento non gli sia del tutto estraneo. È evidente che egli torna alla politica dopo sette anni sulla base dello stesso fallimento politico che aveva aperto la strada a Renzi. L’8 dicembre del 2013 il candidato Cuperlo, con una sua indiscutibile dignità, sostenuto da tutto il gotha di provenienza Pci, definito a un certo punto “la ditta” (non ho mai capito per quale istinto masochistico) si fermò al 18% dei suffragi nelle primarie.
Enrico Morando in un recente articolo su Il Riformista ha fatto una distinzione che mi sembra importante fra “identità” e “funzione” di un partito. A chi proviene dal Pci vorrei ricordare che Togliatti per definire il partito nuovo insisteva sulla “funzione nazionale”; non a caso usava quella parola “funzione”, perché l’identità lo avrebbe portato da un’altra parte, che perdeva di vista la nazione. Come è avvenuto con l’Ungheria nel 1956.
La funzione di un partito come il Pd non è “stare al governo”; certamente il Pd deve avere legami più forti e continui con le richieste, le aspettative della società delle sue parti più bisognose e svantaggiate come di quelle decisive per il lavoro, la produzione, lo sviluppo; per rappresentarle e, soprattutto, per tradurre quelle richieste e quelle aspettative in obiettivi di governo, mettendosi nella condizione – questo sì – di vincere nella competizione per il governo. Questa è la “funzione” di un partito come il Pd.
Due postille.
La prima sulla legge elettorale. Faccio notare che solo con sistemi elettorali proporzionali può capitare che ci sono partiti che “stanno sempre al governo”. Per questo condivido quanto ha detto Morando sul doppio turno; e mi permetto di ricordare una nota che pubblicai su QdR (Qualcosa di Riformista un nostro bel periodico online). Durante il periodo Monti, quindi prima delle elezioni del 2013 c’era una gran discussione sulla necessità di cambiare la legge elettorale che allora era il porcellum; in quella nota dicevo “fate la legge elettorale che volete purché ci sia il doppio turno”. Allora non si concluse niente; speriamo non si faccia il bis.
Seconda postilla sul partito. Sono d’accordo con Morando che la contendibilità della leadership deve essere salvaguardata perché essenziale per la funzione stessa del Pd che richiede una leadership forte con un chiaro indirizzo politico. L’ultimo cambio di leadership però non è avvenuto a seguito dell’esito di una contesa fra personalità e linee politiche ma è stato innescato dal fallimento della leadership precedente, come del resto accadde dopo Bersani. Una leadership forte richiede una investitura forte come quella delle primarie; ma ha anche bisogno di “contrappesi”.
O, meglio, trattandosi di un partito e non di uno stato, ha bisogno di un ricco pluralismo non solo riconosciuto con le correnti al quale viene esclusivamente affidato. Il pluralismo deve essere ben strutturato anche formalmente, con regole e istanze che lo fanno vivere. Ne ha bisogno la stessa leadership che altrimenti rimane sola con la sua maggioranza automatica e nel silenzio generale, senza la possibilità di misurare consensi e dissensi reali e, soprattutto, senza poter acquisire tutti gli elementi che consideri utili e che il pluralismo può fornire. Nel Pd di oggi questo problema non è affrontato, neppure nell’ambito statutario.
Intervento alla Presidenza Nazionale di LibertàEguale – 20/03/2021