di Giorgio Tonini
Con il “governo del cambiamento”, ha scritto su “L’Adige” di domenica scorsa il politologo Gaspare Nevola, la guida del nostro Paese ha preso un sapore politico “anti-sistema”. Ove per “sistema” si intende essenzialmente l’establishment europeo, a cominciare dalla Commissione di Bruxelles e dai suoi presunti “dogmi” economici e finanziari. Contro questa linea, osserva Nevola, le principali forze di opposizione (Pd e Forza Italia) “balbettano un ‘sostegno a prescindere’ ai richiami di ‘razionalità economica’ provenienti da Bruxelles”. Nel frattempo gli elettori premiano i populisti al governo.
I tre schieramenti sull’Europa: conservatori, federalisti, sovranisti
Questa ricostruzione, peraltro molto diffusa in Italia, descrive in modo a mio avviso sbagliato un problema reale. La descrizione è sbagliata perché è semplicistica. Non è vero che in Europa (e in Italia) l’alternativa sia binaria: pro-sistema contro anti-sistema. In effetti, lo schema di gioco è (almeno) a tre: ci sono quelli che chiameremo i “conservatori”, cioè i difensori dell’Europa così com’è (perché è il contesto per loro più conveniente); ci sono i “federalisti”, ossia coloro che vogliono un salto in avanti nella costruzione dell’Europa politica, anche a costo di immaginare una Unione “a più velocità”; e ci sono i “sovranisti”, quelli che vogliono ridimensionare l’Europa, ritornando ad una piena sovranità degli Stati e rimettendo in questione istituti comuni, come l’euro o l’abolizione delle frontiere interne.
Tra le famiglie politiche rappresentate nel parlamento europeo, i popolari (ai quali aderisce Forza Italia, ma che sono saldamente guidati dalla Cdu-Csu tedesca) sono la componente essenziale del primo gruppo, quello dei “conservatori”; socialisti e democratici, liberali e verdi costituiscono il secondo gruppo, variamente e diversamente “federalista”, del quale fa parte anche il Pd italiano; mentre la terza famiglia politica, quella “sovranista”, è una galassia composta da forze assai eterogenee, che vanno dai conservatori britannici ai post-fascisti francesi e dai nazionalisti austriaci, ungheresi e polacchi, fino ai nostri leghisti e grillini.
2014-19: l’intesa italo-tedesca per una interpretazione ‘flessibile’ delle regole europee
La scorsa legislatura europea (2014-19) è stata segnata, almeno nella prima parte, da un accordo tra i popolari (guidati dalla Germania della Merkel) e i socialisti e democratici (a guida italiana, grazie all’exploit elettorale del Pd di Matteo Renzi). L’intesa italo-tedesca si è concretizzata in una interpretazione “flessibile” delle regole europee in materia di finanza pubblica: fermo restando l’obiettivo del pareggio di bilancio e della riduzione del debito, si sono concessi ai governi (e in particolare a quello italiano) tempi più lunghi per conseguirlo. Al tempo stesso, l’accordo ha consentito implicitamente al presidente della Bce, Mario Draghi, di tenere una linea di politica monetaria marcatamente espansiva, finalizzata a sostenere la crescita spingendo verso il basso i tassi d’interesse.
È dunque del tutto sbagliato descrivere il Pd come un partito appiattito su un “sostegno a prescindere” dell’ortodossia europea. Il Pd quella ortodossia l’ha sottoposta ad un vaglio critico e l’ha significativamente modificata. Anche tenendo ben presenti, in un quadro di evoluzione europea, gli interessi nazionali italiani. I risultati della scorsa legislatura, che ha visto il nostro Paese governato dal Pd, sono lì a dimostrarlo: deficit e debito hanno rallentato la loro corsa, mentre i dati dell’economia reale, crescita e occupazione, tornavano positivi.
I tre motivi del voto ai populisti
E tuttavia, nonostante i risultati incoraggianti per il Paese, gli italiani hanno punito il Pd e il compromesso italo-tedesco e votato in massa per il populismo sovranista. Questa almeno apparente contraddizione si può spiegare solo facendo i conti col problema reale implicitamente proposto da Nevola. Lo riassumerei richiamando tre dati essenziali.
Il primo è largamente noto: nel periodo 1995-2018 il debito pubblico italiano è passato da 1.150 a 2.300 miliardi di euro e da circa il 120 a più del 130 per cento in rapporto al pil.
Meno noto è il secondo dato: in quello stesso periodo (1995-2018) gli italiani si sono visti addebitare, in rate annuali (grazie all’euro, per fortuna, decrescenti), 1.850 miliardi di interessi. Sommando al debito del 1995 gli interessi maturati, nel 2018 il debito avrebbe dovuto superare i 3.000 miliardi. Se ciò non è accaduto, è perché in quegli stessi anni gli italiani hanno pagato più di 700 miliardi di “avanzo primario”, ossia di differenza tra quanto incassato e quanto speso dallo Stato, al netto degli interessi.
Questo terzo dato, quasi mai citato, sono i “sacrifici” fatti dagli italiani nell’ultimo quarto di secolo. Nessun paese ha fatto tanto: il più virtuoso, la Germania, ha fatto “solo” 500 miliardi di avanzo primario, metà dello sforzo dell’Italia se rapportato al pil; Francia e Spagna hanno cumulato addirittura disavanzo primario.
Italiani stanchi di fare sacrifici
Si potrebbe riassumerlo così, il problema reale posto da Nevola: dopo un quarto di secolo di “sacrifici” gli italiani sono stanchi di pagare; anche perché hanno capito che se non avessero sulle spalle il peso del passato (il debito gigantesco accumulato negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, peraltro per finanziare spesa corrente, in gran parte previdenziale, certo non investimenti), oggi avrebbero la finanza pubblica più sana d’Europa. Il problema è che del passato non ci si può liberare con uno scrollone e che il debito c’è e continua a crescere. La posizione dei leghisti e dei grillini è dunque, certamente, rappresentativa dell’umore prevalente tra gli elettori, ma non sembra in grado di proporsi come una via d’uscita praticabile dal problema italiano. Smettere di fare avanzo primario può solo portare (come sta già succedendo) ad una crescita, non dell’economia reale, ma della spesa per interessi e ad un balzo in avanti del debito, ai limiti della sua sostenibilità.
Perché serve il bilancio dell’Eurozona
Quella italiana sembra dunque una situazione senza uscita. A meno che non cambi qualcosa in Europa. Non nella direzione auspicata dai “sovranisti”, che avrebbe come unico effetto la crisi finanziaria del Paese. Ma in quella auspicata dai “federalisti”: fare come gli americani, che usano il dollaro e il bilancio federale per alimentare la crescita dell’Unione e rendere quindi sostenibile anche il pareggio di bilancio dei singoli Stati. Con un bilancio dell’Eurozona, noi potremmo finalmente contare su una forte spinta alla crescita e all’occupazione, che renda socialmente e politicamente sostenibile l’attuale avanzo primario italiano e dunque la stabilizzazione e la riduzione del debito nazionale. È la proposta che Macron, a nome dello schieramento “federalista”, sta facendo alla Merkel, che esita e frena. Il presidente francese persegue, ovviamente, l’interesse nazionale del suo Paese. Ma l’interesse nazionale della Francia, in questo caso, coincide con quello dell’Italia. Sarebbe bene che se ne accorgesse anche il “governo del cambiamento”. Prima che sia troppo tardi.
(Pubblicato su L’Adige, 27 giugno 2019)
Consigliere provinciale a Trento e presidente del gruppo del Partito Democratico del Trentino. Componente della Presidenza di Libertà Eguale.
Senatore dal 2001 al 2018, è stato vicepresidente del gruppo del Partito democratico in Senato, presidente della Commissione Bilancio e membro della segreteria nazionale del Pd.
E’ stato presidente nazionale della Fuci, sindacalista della Cisl, coordinatore politico dei Cristiano sociali e dirigente dei Democratici di Sinistra.
Tra gli estensori del “Manifesto per il Pd”, durante la segreteria di Walter Veltroni è stato responsabile economico e poi della formazione del partito.