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Povertà e lavoro: sussidio sicuro, futuro incerto

di Natale Forlani

 

L’idea di proporvi questa riflessione mi è venuta nel piccolo bar di Trastevere, dove prendo il solito caffè, ascoltando alcune persone che si interrogavano sul come dovevano “comportarsi” per accedere ai 780 euro mensili del reddito di cittadinanza.

 

Come l’Europa? Macché 

La disinformazione era palese ma l’atteggiamento di queste persone è del tutto coerente con le aspettative degli esponenti politici che sostengono questo provvedimento. E tutto questo la dice lunga riguardo i possibili effetti distorsivi dell’intervento in questione.

“Vogliamo fare come negli altri paesi europei”, affermano perentoriamente gli esponenti dei 5 star. Mica vero. Sarebbe più corretto affermare che stiamo scimmiottando quello che fanno gli altri paesi. Semplicemente perché, diversamente dalla vulgata italiota, da altre parti nessuno pensa di fare le politiche attive del lavoro e per il contrasto della povertà, aumentando i sussidi alle persone… anzi! Vediamo cosa succede quando si programmano interventi basati sui sussidi con la prospettiva di favorire un inserimento lavorativo, ovvero per favorire un percorso di inclusione sociale delle persone coinvolte. Come riuscire ad avere la prestazione?

 

Come riuscire ad avere la prestazione?

È la prima domanda che si pongono i potenziali interessati, che quasi mai coincidono con le persone che dovrebbero essere veramente coinvolte nei provvedimenti. Questo avviene perché a monte il legislatore, per interventi di questo tipo, prevede una complicata serie di criteri di selezione dei potenziali usufruttuari (che nei casi dei provvedimenti rivolti a contrastare la povertà si basano principalmente sulla prova dei mezzi). Gli studi internazionali in materia insegnano che già questo aspetto, che è una condizione necessaria per l’adozione di questi provvedimenti, produce una selezione tra coloro che sono attrezzati a interagire con questi meccanismi , o che si organizzano a tale scopo, e quelli più sprovveduti, che non sono in grado di farlo (e che sono una componente non marginale nelle popolazioni meno abbienti).

Cosa è la prova dei mezzi? Gli indicatori del reddito familiare, e del patrimonio immobiliare e mobiliare posseduto, dei carichi familiari ovvero i sussidi percepiti da altre amministrazioni per la medesima finalità.  Tutte cose ragionevoli, ma facilmente manipolabili per la finalità di farle coincidere con i requisiti richiesti per avere diritto ai sussidi. L’esempio più noto è quello dei redditi non denunciati provenienti da lavoro sommerso. Ma il sottobosco degli escamotage è facilmente allargabile ai carichi familiari, all’intestazione di case e conti correnti, alle false residenze . Una platea di modalità peraltro già ampiamente consolidata, e tollerata, per le dichiarazioni fiscali. Infatti questo è il principale problema italiano.

Non esistono solide anagrafi, condivise tra le amministrazioni, per valutare i valori reddituali, i movimenti del patrimonio mobiliare e immobiliare, e persino per tenere il conto delle prestazioni erogate a vario titolo per l’assistenza alle persone e ai nuclei familiari. In queste condizioni, nel dispositivo previsto nel decreto per il reddito di cittadinanza si prevede che l’INPS debba accertare “entro 5 giorni dalla domanda inoltrata, i requisiti dei richiedenti”… sulla base di che? Di quello che autocertificano i richiedenti… ovviamente .

 

Ma il lavoro è incerto

Il sussidio è sicuro e il lavoro è incerto. Questo è il secondo aspetto che influenza i comportamenti dei percettori. Anche qui, tutti gli studi internazionali, ma anche quelli nostrani, dimostrano che la propensione naturale dei percettori è quella di fare durare il più possibile il sussidio e ad “arrotondare” l’introito pubblico con prestazioni saltuarie “in nero”. E questo avviene già anche nell’utilizzo dei sostegni al reddito nel caso di disoccupazione involontaria. Un comportamento moralmente discutibile, ma perfettamente razionale.

Il tema non sfugge ai legislatori negli altri paesi europei che, infatti, tendono a contenere il rischio riducendo l’entità dei sussidi, la loro durata temporale, imponendo ai percettori una serie di vincoli per renderli attivi nella ricerca del lavoro, e sanzionando i rifiuti di nuove offerte di lavoro. Nel caso delle politiche per il contrasto della povertà l’evoluzione di questi interventi negli altri paesi europei tende addirittura a ridurre al minimo l’erogazione dei sussidi, sostituendoli con prestazioni che favoriscono l’accesso ai servizi fondamentali, e collegati a fabbisogni delle persone, e con l’adozione di meccanismi premiali per chi assume i lavoratori idonei.

 

L’effetto? Prolungare il tempo dei sussidi

Per fare un esempio, in Germania il sussidio erogato prevede un massimale mensile di 400 euro, l’Agenzia competente si riserva di integrare l’intervento con servizi appropriati al bisogno delle persone e delle famiglie, e gli interessati, in grado di lavorare, sono tenuti ad accettare qualsiasi proposta di lavoro! Il confronto con il provvedimento in gestazione in Italia è imbarazzante. Nel reddito di cittadinanza si promette un sussidio più elevato, gestito da servizi deboli o inesistenti per buona parte del paese, e una previsione di avviare politiche attive per il lavoro, promosse da improvvisati navigator, che hanno il compito di trovare tre offerte di lavoro “pro capite per assunzioni della durata di almeno 24 mesi”. Campa cavallo… L’unico risultato che produrranno queste politiche sarà quello di favorire l’organizzazione di interi eserciti di percettori finalizzata a prolungare nel tempo i sussidi, sulla base delle mancate promesse occupazionali.

E la promozione dei lavori di pubblica utilità, destinata a fornire una motivazione per la proroga dei sussidi, rappresenterà la forma privilegiata per le rivendicazioni organizzate. Il mito dei controlli, ovvero “facite ‘a faccia feroce”.

 

Controllare sì, minacciare no

Anche negli altri paesi fanno i controlli per evitare gli abusi e le prestazioni indebite. Senza il bisogno di minacciare. Li fanno utilizzando informazioni solide e condivise tra le amministrazioni, con servizi adeguati e dimensionati ai bisogni, e una maggiore attenzione ai risultati prodotti. In Italia sono mesi che si minacciano interventi draconiani contro i “furbetti” del futuro reddito di cittadinanza. Il decreto attuativo cerca di dare corpo a queste minacce. Nell’ordine: da 1 a 6 anni di galera per le dichiarazioni mendaci sui requisiti di reddito, sospensioni e decadenza dai sussidi per inottemperanza ad appuntamenti e partecipazione ai programmi anche per uno solo dei membri del nucleo familiare, verifica ogni tre mesi dei requisiti di reddito, segnalazioni alla guardia di finanza nel caso di comportamenti anomali sui consumi (quale sia la definizione giuridica dei consumi anomali non è dato sapere). Il tutto correlato da obblighi e adempimenti dei funzionari dei comuni e dei servizi per l’impiego vincolati ad attivare la Guardia di finanza e l’ispettorato del lavoro. Per fare cosa? Per controllare il reddito delle famiglie meno abbienti? Per fare le ispezioni presso le famiglie che pagano in nero le prestazioni a domicilio? Per controllare i lavoratori non regolari e non i loro datori di lavoro?

In realtà la minaccia di ampliare i controlli, per rimediare gli errori delle politiche, assomiglia tanto ad una gigantesca tigre di carta. Gli obblighi burocratici in capo alle amministrazioni, in gran parte inapplicabili, oltre che a distrarre il lavoro dei funzionari rispetto ai servizi fondamentali, finiranno per offrire argomenti ai percettori per contestare le eventuali sanzioni. Un esempio lampante sono gli esiti delle ispezioni effettuate dalla guardia di finanza sulle dichiarazioni Isee (circa 6 mln di dichiarazioni) presentate per accedere alle esenzioni dei ticket sanitari e altre prestazioni assistenziali. Poche decina di migliaia di verifiche, il 60% delle quali sono risultate “false”. Ma il dato mette in luce, nel contempo, due evidenze: il potenziale di prestazioni indebite e l’inconsistenza, per non dire l’impossibilità di promuovere, dei controlli adeguati rispetto al volume delle stesse.

 

È solo la riproduzione degli errori del passato

Sintesi finale. In Italia non è in corso un tentativo di produrre innovazioni di stampo europeo in materia di politiche attive del lavoro e di contrasto della povertà. Più semplicemente è in atto un tentativo di riprodurre su più vasta scala gli errori già fatti nel passato. Pensare di rimediare le falle delle politiche sbagliate con il rafforzamento delle azioni di controllo e delle sanzioni è velleitario e controproducente.

Questi errori provocheranno non solo una ulteriore dispersione di risorse e una distorsione nella gestione dei servizi dedicati alle politiche attive del lavoro, ma ci allontaneranno in modo drammatico da quelle adottate dalla stragrande maggioranza dei Paesi europei.

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