di Stefano Ceccanti – Ordinario di Diritto Pubblico Comparato – Scienze Politiche Roma Sapienza
Audizione alla Commissione Affari Costituzionali 16 luglio 2024
- Premessa: una critica generale, giusto scegliere il Premierato, ma sarebbe stato opportuno ripartire dalle scelte meditate della Bozza Salvi
Ringrazio moltissimo per l’invito.
Premetto che le osservazioni che seguono non sono solo il frutto di osservazioni personali, ma di un lavoro comune svolto con le associazioni Libertà Eguale, ioCambio, Riformismo e Libertà e con la Fondazione Magna Carta.
In termini generali ribadisco un punto di consenso: il modello del cosiddetto premierato, almeno in prima istanza, si presterebbe ad essere il più consensuale per completare anche sul piano nazionale la transizione della forma di governo, superando i limiti della Seconda Parte della Costituzione, dovuti alla eterogeneità sulle scelte internazionali del periodo della Guerra Fredda, come ha ribadito recentemente in un’intervista il Presidente della Corte costituzionale Augusto Barbera.
Tale modello si basa, sin dalle sue prime teorizzazioni nella Francia del 1956 ad opera di Maurice Duverger e del Club Jean Moulin, sull’idea di trovare soluzioni istituzionali adatte al Paese in cui si interviene, tenendo conto delle particolarità del suo sistema dei partiti, tali da giungere al normale esito inglese, ossia ad un Governo legittimato direttamente dai cittadini con una durata tendenziale pari alla legislatura, grazie al corredo di poteri di cui dispone il premier, in modo tale che poi i cittadini possano imputare precise responsabilità ai termine di tale periodo.
Quindi l’originalità delle regole di ciascun contesto non è contraddittoria rispetto alla volontà di giungere agli esiti tradizionali comuni alla forma di governo parlamentare del Governo inglese e, quindi, delle principali democrazie parlamentari che, in modi diversi, sono arrivate agli stessi standard.
Non ha quindi senso una critica pregiudiziale al Premierato che nega legittimità a trovare regole originali, come se si dovessero solo clonare modelli stranieri, senza adattamenti. Come ricordava Georges Vedel in un suo celebre saggio del 1969, il diritto comparato invita all’originalità degli strumenti proprio quando si vogliono ottenere risultati analoghi ad altri Paesi perché il terreno concreto su cui si opera, i sistemi di partito, sono diversi.
Del resto ogni modello, prima di essere costruito, non esiste. Non si dava il modello semi-presidenziale fondato su elezione diretta del Capo dello Stato, rapporto fiduciario ed elezione maggioritaria del Parlamento prima che esso fosse adottato in Francia nel 1958-1962. Né è realmente pertinente il riferimento al modello israeliano che si basò sin dall’inizio su una deviazione rispetto all’impostazione di Diverger del 1956, abbinando contraddittoriamente logica maggioritaria per il Premier e proporzionale per il Parlamento.
La transizione è stata operata con un modello organico e innovativo, ispirato a quell’impostazione per i livelli sub-nazionali, dai Comuni alle Regioni, anche se non comparabili per complessità a quello nazionale, mentre su quest’ultimo si è intervenuto solo sulle formule elettorali, in modo peraltro contraddittorio e instabile.
Per questa ragione, è la prima critica, di carattere generale, al testo su cui siamo chiamati ad esprimerci, non si capisce perché non si sia partiti dal più puntuale e organico progetto di premierato adattato alla situazione italiana redatto in articoli, ossia il testo del senatore Cesare Salvi alla Bicamerale D’Alema, puntualmente richiamato dall’ottimo dossier del Servizio Studi. Nessun testo va mai dogmatizzato, però logica avrebbe voluto che si ripartisse emendando quel testo, che aveva ben meditato le principali alternative sui vari punto in campo, dall’incrocio con formule elettorali disrappresentative, capaci di funzionare non come un apparecchio fotografico ma come un trasformatore di energia (Duverger) in modo da dare agli elettori il ruolo di arbitri sulla scelta del Governo, per richiamare la celebre espressione di Roberto Ruffilli, e con regole costituzionali in grado di disincentivarne la caduta.
Per questa ragione farò una breve comparazione sui principali punti critici tra il testo proveniente dal Senato e la Bozza Salvi.
Quest’ultima semplificava in modo chiaro e ragionevole la scelta dell’elettore con un unico voto per un candidato alla Camera dei deputati (unica a dare la fiducia) il quale indicava un candidato Primo Ministro a cui era collegato, il cui nome era stampato sulla scheda, ottenendone così una legittimazione diretta (di fatto il voto dell’elettore riguardava entrambi).
- Le cinque critiche puntuali e alcune soluzioni da inserire direttamente in Costituzione: bicameralismo con esiti divaricanti; premi, soglie e ballottaggi; voto estero; automatismi, Presidente della Repubblica
Vengo quindi alle critiche puntuali.
2.1 Risultati divaricanti Camera-Senato e ballottaggio risolutivo
La prima è la seguente: nel testo oggi in discussione (articolo 5) non sappiamo ancora esattamente se i voti (e/o le schede) siano due oppure tre e come i risultati si possano rendere coerenti tra di loro. Anche nel modello più semplice, due voti o due schede, che fare se i risultati di Camera e Senato, – due elezioni di due Camere indipendenti – risultano diversi? Eventualità più improbabile dopo l’allineamento degli elettorati attivi, ma non impossibile. Se il testo non risolve direttamente questo problema, ad esempio con un ballottaggio con unico voto che sia decisivo sia per la Camera sia per il Senato, ci si troverebbe di fronte ad una sorta di comma 22, per il suo incrocio con la norma transitoria che prevede che la riforma sia applicabile solo dopo che sia entrata in vigore e sia operativa la disciplina per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere. La legge elettorale, senza una copertura costituzionale precedente, non potrebbe in modo costituzionalmente legittimo introdurre tale tipo di ballottaggio che romperebbe l’indipendenza delle due elezioni di Camera e Senato su cui continuerebbe a reggersi la Seconda Parte della Costituzione. Se lo facesse rischierebbe una probabile censura della Corte costituzionale, che non potrebbe nemmeno limitarsi a rimuovere tale ballottaggio non coperto costituzionalmente e validare un modello irragionevole con la compresenza di due risultati potenzialmente opposti. La legge elettorale sarebbe quindi inapplicabile e con essa anche la riforma costituzionale, pur eventualmente approvata dal corpo elettorale.
Potrebbero astrattamente esistere anche altre soluzioni, da quella massimale di ritorno alla logica del testo Salvi con una trasformazione del Senato e la sua fuoriuscita dal rapporto fiduciario, come accade in tutte le forme di governo parlamentari, a quella minimale simil norvegese in cui si potrebbe costruire l’elezione di un’unica Assemblea parlamentare con un unico voto, chiamata poi a dividersi in Camera e Senato e, conseguentemente, prevedendo una serie di attribuzioni per il Parlamento in seduta comune.
Le soluzioni, ripeto, possono essere varie, ma il punto chiave è che non si possono differire alla legge elettorale senza una previa copertura costituzionale. Altrimenti sarebbero illegittime e la riforma si paralizzerebbe.
Per inciso sul ballottaggio, di cui si tratterà oltre, vale la pena di segnalare che esso ha esempi quanto mai autorevoli: esso è previsto anche per l’elezione del papa nella vigente Costituzione “Universi dominici gregis” (testo vigente emendato dal motu proprio di Benedetto XVI “De Aliquibus Mutationibus in normis de electione romani pontificis” dell’11 giugno 2007), ferma la non mutuabilità di un ordinamento fondato su basi ben diverse.
2.2 Premi, soglie, ballottaggio: non blindare a tutti i costi maggioranze assolute, ma tutelare i Governi di maggioranza relativa
La seconda contraddizione, quella relativa a premi e soglie, dipende da un errore concettuale che la bozza Salvi evitava e che in sintesi si può riassumere così: si intende giungere ad una scelta diretta del cittadino curvando il sistema in modo tale da produrre sempre e comunque una maggioranza assoluta in seggi, blindata poi da alcuni automatismi o si tratta di favorire la nascita di una maggioranza proteggendo poi l’esecutivo democraticamente legittimato anche se di minoranza (rectius di maggioranza relativa)?
Il testo Salvi si muoveva in coerenza con questa seconda prospettiva: incentivava la formazione di una maggioranza in seggi, non costituzionalizzava il sistema elettorale, ma in sostanza parlando di candidati alla Camera e non di liste faceva intendere che si basava su un sistema di collegi uninominali allora vigente con la legge Mattarella che si sarebbe potuta correggere in via incrementale. Un sistema di collegi è naturalmente disrappresentativo ma non garantisce la maggioranza assoluta.
Il testo Salvi lasciava poi volutamente aperta la questione del ballottaggio al dibattito successivo. Ballottaggio che era stato oggetto, in particolare, della proposta di mediazione avanzata dal prof. Barbera nella sua audizione alla Bicamerale del 16 aprile 1997 basata sulla designazione del candidato premier al primo turno e sulla sua elezione diretta nel ballottaggio, qualora nessuno schieramento avesse ottenuto al primo turno la maggiorana assoluta dei seggi. Poi, come è noto, passò il testo Salvi sul semipresidenzialismo, alternativo a quello sul premierato. Cionondimeno, trattandosi di un’esigenza di sistema, la proposta del ballottaggio (tra coalizioni che conduceva a una legittimazione diretta, non con un’elezione formalmente diretta di una persona) si affermò ugualmente tanto da essere prevista nel documento sulla legge elettorale presentato il 30 giugno 1997 a firma dei deputati Mattarella, Berlusconi, Nania, Cossutta, Boselli e dai senatori Loiero, Dentamaro, Salvi e Pieroni (che riporto integralmente in Nota 1). Documento che l’on. Mattarella, sempre basandosi su un ballottaggio tra coalizioni a legittimazione diretta e non con elezione diretta formale, poi formalizzò con la presentazione della proposta di legge AC n. 4926 del 27 maggio 1998.
Tornando al testo Salvi sul premierato basato su un sistema di collegi uninominali, esso prevedeva che coerentemente, fosse nominato Premier il candidato a cui era collegata la maggioranza relativa dei deputati e non vi era una fiducia iniziale, ma, come da tradizione inglese (recepita in Portogallo), solo la presentazione del programma senza voto. La fiducia era data per presunta e spettava caso mai ai gruppi di opposizione l’onere della prova di sfiduciare a maggioranza assoluta. Con alcune varianti è l’impostazione chiave delle forme odierne con rapporto fiduciario, che non si propongono di blindare una maggioranza assoluta ma di consentire di governare a una maggioranza relativa. In Francia il Governo è addirittura esentato dal presentarsi in Parlamento; altrove vi è un rapporto fiduciario instaurato col solo Premier che è confermato se non ha contro una maggioranza assoluta (Svezia), o se comunque i Sì battono i No a maggioranza relativa (Spagna) o se è il più votato, sempre che convenga il Presidente della Repubblica (Germania).
Nel testo proveniente dal Senato, invece, si vorrebbe un’elezione diretta ma poi contraddittoriamente si vincola il neo-eletto a una votazione iniziale di conferma (articolo 7) con eventuale prova di appello, previa costituzionalizzazione persino della prassi dell’incarico. Non si capisce perché vincolare l’eletto direttamente a condizioni da cui sono esentati anche i Premier europei non eletti in modo formalmente diretto. Vale la pena di andare oltre la legittimazione diretta degli altri ordinamenti con un’elezione formalmente diretta per poi porre vincoli addirittura maggiori?
Il testo non si pone il problema di tutelare i Governi di maggioranza relativa perché pretenderebbe di “garantire” attraverso premi nazionali la maggioranza assoluta (lo intendo così, unico punto di dissenso dall’ottimo dossier del Servizio studi perché il termine “garantire” porta naturalmente alla maggioranza assoluta, anche se si usa l’articolo “una” invece di “la”). Ora qui ci si imbatte nella giurisprudenza costituzionale consolidata, ricostruita puntualmente dal citato dossier, che è espressiva di esigenze permanenti di sistema e che, come tale, non credo possa essere superata neanche da una revisione. Così, peraltro, alcuni commentatori hanno inteso anche un recente richiamo a proporzionalità e ragionevolezza nell’uso dei premi di maggioranza, che appaiono correzioni più artificiose rispetto a quelle per così dire naturali dei collegi uninominali, da parte del Presidente Mattarella nel suo recente discorso alla Settimana sociale dei cattolici italiani di Trieste (significativo l’uso del termine “marchingegni”). Traducendo in concreto: i premi richiedono soglie. La Corte ha ammesso la legittimità di un premio che porti al 55% dei seggi purché sia stato conseguito il 40% dei voti. Con una importante precisazione da fare: questa giurisprudenza si riferisce solo al sistema elettorale a Costituzione vigente. Altra cosa è se il premio fosse conseguito non come risultato di una semplice elezione parlamentare ma come traino di un’elezione diretta del Presidente del Consiglio. In questo nuovo quadro sarebbe ancora sufficiente il 40% oppure, considerando che nel Continente europeo le elezioni dirette sono concepite con ballottaggio chiuso a due, ossia col 50% più uno, le condizioni poste non dovrebbero diventare più rigorose? Almeno il dubbio è più che legittimo, ma personalmente lo ritengo ben più di un dubbio.
In ogni caso esiste un problema: il testo, così puntuale nel voler garantire una maggioranza assoluta in seggi, non chiarisce le condizioni di assegnazione. Se si considera almeno non superata la giurisprudenza costituzionale (che potrebbe diventare persino più rigorosa) e se si vuole poi fissare una soglia in legge elettorale, cosa si fa se quella soglia non viene superata? I casi sono due: o non scatta nessun premio, ma in quel caso andrebbe corretto il termine ‘garantire’ perché i seggi sarebbero assegnati con la proporzionale oppure si assegna con ballottaggio. Ma anche in questo secondo caso alcune condizioni andrebbero costituzionalizzate giacché sulla base della giurisprudenza della Corte, trattandosi di un ballottaggio nazionale, andrebbe inserita la possibilità di ulteriori apparentamenti e persino con il ballottaggio il premio non potrebbe essere illimitato. Il verbo ‘garantire’ costituirebbe comunque un problema. Insomma, posta la scelta discutibile di vincolare in Costituzione la disrappresentatività attraverso il premio anziché attraverso collegi è ragionevole usare la parola ‘garantire’? E’ possibile omettere la soglia? E’ possibile non costituzionalizzare una scelta così rilevante come il ballottaggio? Anche qui, senza risolvere alcuni nodi con una appropriata copertura costituzionale, la stesura di una legge elettorale capace di funzionare, superando le censure della Corte, potrebbe rivelarsi impossibile.
2.3 Il voto estero: problema con soluzioni diverse da risolvere comunque direttamente in Costituzione
A questo punto emerge come terzo nodo un’omissione, il voto estero. Esso è stato concepito, nel momento della doppia revisione costituzionale che lo ha introdotto, come un diritto di tribuna che assegna un 2 per cento dei seggi garantiti indipendentemente dal numero di iscritti all’Aire, in crescente espansione, ma che ha raggiunto già un 10 per cento circa del corpo elettorale. Questa scelta del diritto di tribuna ha fatto ritenere plausibile una legislazione elettorale applicativa che deroga per moltissimi aspetti alle garanzie di personalità, libertà e segretezza del voto. Conseguentemente le leggi elettorali a premio introdotte in passato (Calderoli e Italicum) avevano escluso il voto estero dalla determinazione del premio medesimo. Il diritto di tribuna doveva restare tale. La soluzione configurata nel testo Salvi, prevedendo una competizione sui seggi con legittimazione del premier ma senza elezione diretta formale, manterrebbe questa logica. Viceversa l’introduzione di un’elezione del Premier a suffragio universale e diretto cambia tutto perché gli italiani residenti all’estero conterebbero per tutti i loro voti e pertanto potrebbero essere determinanti sul piano complessivo ben oltre il diritto di tribuna. Il “peso” degli italiani all’estero cambierebbe radicalmente natura. Anche in questo caso la soluzione va individuata direttamente in Costituzione. Ve ne possono essere varie, dal ponderare il voto rispetto ai seggi assegnati all’esclusione come nei casi precedenti dei sistemi a premio. Si potrebbe persino fare la scelta opposta, aumentare anche il numero dei seggi parlamentari in proporzione ai voti se si vuole comunque quell’esito per il Premier, ma quello che non si può fare è pensare di risolvere la questione posponendola alla legge elettorale perché i vincoli del testo costituzionale modificato impedirebbero una soluzione razionale.
Provo quindi a riassumere il ragionamento: quale “peso” debba avere il voto degli italiani residenti all’estero può essere opinabile, ma quello che logicamente e costituzionalmente non si può fare è attribuire un “peso” diverso a seconda che si tratti di eleggere le Camere o il Presidente del Consiglio, cioè attribuire un “peso” pari al 2% per i seggi parlamentari che esprimono, e pari circa al 10% per l’elezione del Presidente del Consiglio; oppure un “peso” diverso a seconda che si tratti del primo turno o dell’eventuale secondo turno di ballottaggio.
La doppia revisione costituzionale ha attribuito loro un “peso” pari al 2% quanto al numero dei seggi che esprimono. O si mantiene questo “peso”, ma allora lo si mantiene anche per l’elezione del Presidente del Consiglio, oppure lo si cambia, ma comunque per tutte le elezioni, sia del Parlamento che del Presidente del Consiglio. Ed è una scelta comunque da fare a livello costituzionale, non può essere effettuata da una legge ordinaria.
2.4 Valorizzare il potere di chiedere (e a certe condizioni di ottenere) elezioni anticipate come deterrente alle crisi, non scegliere automatismi rigidi
Quindi quarta critica, la questione degli automatismi, in particolare all’articolo 7. Come ricordato dal professor Augusto Barbera presidente della Corte costituzionale in una recente intervista a “Il Sole 24 Ore”, le varie forme di governo con rapporto fiduciario individuano come deterrente principale verso le crisi il possibile ricorso ad elezioni anticipate da parte del Primo Ministro, o in modo esclusivo (Svezia, Spagna) o in modo comunque rilevante (articolo 68 della Legge fondamentale tedesca, articolo ben più importante di quello precedente sulla mozione costruttiva, come non cessano di ricordare nel loro manuale il costituzionalista belga Philippe Lauvaux e quello francese e Armel Le Divellac), tutto il resto, si potrebbe dire, viene dal Maligno. Una volta che si è stabilito, in modo analogo alla Costituzione svedese, che nei vari casi di dimissioni (sarebbe meglio scrivere in alternativa alle dimissioni stesse anziché dopo di esse) il Premier uscente possa indire elezioni anticipate, non si capisce perché si debbano per Costituzione stabilire automatismi tra sfiducia ed elezioni, negare legittimità a Premier che non siano stati eletti nella maggioranza vincente, prevedere solo una sostituzione e così via. Rigidità che potrebbero rivelarsi dannose in crisi di sistema che richiedono qualche forma di flessibilità. Il testo Salvi utilizzava la soluzione spagnola dando una primazia al Premier che poteva indire elezioni anticipate, potere che non poteva essere esercitato solo se preceduto dalla presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva. Un modello spostato sul Premier che è in grado di prevenire la presentazione di tale mozione qualora ritenga di avere ancora una possibile maggioranza, come accaduto con Sanchez, ma che, nel caso, se si ritiene più debole, può anche lasciar presentare e approvare una mozione, come accaduto col suo predecessore Rajoy.
Al netto delle differenze, pur importanti, con Spagna, Svezia (su cui si veda il bell’intervento del professor Cheli alla Bicamerale D’Alema), Germania (su cui si veda il testo Cossutta-Bertinotti nella medesima sede, alternativo ma non troppo distante rispetto a quello Salvi), è importante la sostanza: si può riconoscere una seria primazia, ma senza ricorrere ad eccessivi automatismi.
2.5 L’elezione del Presidente della Repubblica da non delegare alla maggioranza pro tempore
Infine, la questione delle garanzie e la più importante di tutte, l’elezione del Presidente della Repubblica, che non deve essere lasciata alla sola maggioranza pro tempore. Il testo Salvi, che non prevedeva né un’elezione diretta né una formula majority assuring, ampliava il collegio elettorale ai parlamentari europei eletti in Italia e a rappresentati degli enti locali e già questa è un’ipotesi da riprendere con decisione. Se poi si volessero confermare l’elezione diretta e i premi ciò dovrebbe comportare un innalzamento del quorum al 55% dei seggi.
- Una conclusione: usare il testo Salvi almeno come ispirazione per gli emendamenti
Al termine vorrei lanciare, riassumendo, una piccola provocazione: non si è ripartiti dal testo Salvi, per quanto elogiato – e addirittura considerato come un’elezione diretta – dal Presidente del Consiglio in carica in un recente convegno alla Camera. Ma allora non varrebbe comunque la pena che i vari gruppi lo utilizzassero come ispirazione, sia puure non unica, per gli emendamenti? Ne guadagnerebbe la qualità della riforma e aumenterebbero le prospettive di un testo condiviso.
Nota 1«Premesso che le materie regolate da leggi ordinarie non rientrano nella competenza della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali ma in quella delle Camere in sede di procedimento ordinario; che alla proposta di forma di governo che è stata definita dalla Commissione si collega la materia elettorale; si ritiene che una nuova legge elettorale per la Camera dei deputati vada definita secondo i seguenti principi:
Conferma del rapporto tra numero dei seggi assegnati secondo metodo maggioritario e numero dei seggi assegnati in maniera proporzionale nella misura emersa dal referendum del ’93 e prevista dalla vigente legge elettorale (rispettivamente tre quarti e un quarto).
Parte dei seggi assegnati con metodo maggioritario sarà attribuita in un secondo turno elettorale costituito da un ballottaggio unico nazionale tra le due coalizioni che nel primo turno hanno ottenuto i più alti numeri di seggi.
Nel primo turno i seggi dei collegi uninominali maggioritari a turno unico e quelli della quota proporzionale saranno attribuiti secondo i criteri previsti dalla vigente legge elettorale.
Il numero dei seggi riservati al secondo turno dovrà essere di tale entità da promuovere una netta bipolarizzazione elettorale, che renda decisivo il confronto nel ballottaggio tra le due coalizioni risultate più forti al primo turno.
Si dovrà garantire che alla coalizione che al secondo turno ottiene il maggior numero di voti venga comunque assegnata una percentuale di seggi che assicuri una stabile maggioranza».
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.