LibertàEguale

Primarie Usa: la scommessa di Elizabeth Warren

di Ranieri Bizzarri

 

Approfittando di essere rimasto solo a casa, nella notte tra giovedì 12 e venerdì 13 settembre ho assistito al terzo dibattito tra i candidati alle primarie democratiche statunitensi (ma devo dire che la compagnia non mi aveva impedito di vedere gli altri due dibattiti precedenti). Un’altra osservazione personale che premetto a questa breve analisi, è il piacere con cui ho seguito un dibattito politico molto diverso da quello che da qualche giorno sta imperversando in Italia. Nel dire questo, corro il rischio di apparire provinciale ed elitario: pazienza.

Ma ascoltare i candidati democratici confrontarsi in maniera trasparente e vivace mi sembra da preferirsi assai al tatticismo esasperato delle varie componenti dei democratici italiani, impegnati da settimane in un confronto insensato e obliquo, fatto di mezze frasi rilasciate in interviste, post da tradurre con la stele di Rosetta, telefonate di reclutamento per partiti che non partono mai, un’altalena sfinente di nomi per i posti di sottogoverno e, soprattutto, pochissime idee. Per cui, elitismo sia.

 

La necessità di combattere Trump. Uniti

Il terzo dibattito è stato, a detta di tutti i commentatori, il migliore dei tre ed ha segnato un punto a favore del Partito Democratico americano nel suo complesso. Al di là delle (notevoli) differenze di visione, tutti i candidati hanno riconosciuto la necessità di combattere uniti Trump. E lo hanno fatto nella (per me splendida) maniera americana: sottolineando come Trump sia pericoloso in primo luogo perché fattore di divisione della Nazione. I candidati Dems si propongono di riconciliare il paese, ripristinando una corretta dialettica bipartisan e facendo appello allo sforzo collettivo della Nazione. Gli Stati Uniti devono essere la guida di tutte le democrazie del nostro Pianeta, è l’articolo zero (immateriale) della Costituzione Americana.

 

Esempi di resilienza

E per apprezzare questo approccio, occorre cominciare dalla fine del dibattito: i giornalisti della ABC hanno chiesto a tutti i candidati quale fosse il loro esempio guida di resilienza. Una domanda drammaticamente sconosciuta alle nostre latitudini. Joe Biden ha descritto con grande drammaticità e pathos vero la resilienza nata dalle sue tragiche vicende personali (ha perso moglie e una figlia in un incidente d’auto, mentre un altro figlio è stato stroncato dal cancro). Biden ha parlato della resilienza come capacità di affrontare il destino dando un senso al proprio agire, a favore degli altri, dei propri fellow americans e più in generale degli human beings. Di Elizabeth Warren dirò più avanti. Ma forse Kamala Harris, senatrice californiana, ha dato la risposta più bella alla domanda: la resilienza è believe in what can be, unburdened by what has been. “Credere in quello che può accadere, senza il timore di quello che è accaduto”.

 

I candidati democratici

Per la prima volta nel dibattito si confrontavano insieme i tre front-runners delle primarie, Joe Biden, il senatore del Vermont Bernie Sanders e la senatrice del Massachussets Elizabeth Warren. Accanto a loro poi il quartetto delle “seconde linee” nei sondaggi: la già menzionata Kamala Harris; il sindaco di South Bend, Indiana, Pete Buttigieg; l’ex-deputato texano Beto O’Rourke; il primo senatore afroamericano del New Jersey, Cory Booker. Completavano il gruppo tre comprimari interessanti: l’imprenditore Andrew Yang; la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar; l’ex-ministro dello sviluppo urbano di Obama, Julian Castro. Le linee di divisione sui temi sono apparse subito chiare: Biden, Klobuchar e Buttigieg sono Dems moderati; O’Rourke, Harris e Yang sono moderati su alcuni temi, radicali su altri. Sanders e Booker sono assai radicali. La senatrice Warren fa storia a sé.

 

Il profilo di Joe Biden

Non voglio approfondire la questione delle differenze politiche tra i candidati, magari sarà interessante farlo in seguito. E’ molto più interessante, in questo momento, sottolineare alcuni elementi di strategia, perché non hanno una valenza solo americana. Partiamo dal problema dell’eleggibilità: la teoria corrente è che per vincere le elezioni 2020 i democratici dovranno contrapporre a Trump una persona solida, moderata, pragmatica, affidabile. Sembra il ritratto di Joe Biden, che è a Washington da 40 anni, ha una grande esperienza di politica estera ed è stato il vice di Obama. Ed infatti Biden è considerato dalla maggioranza degli elettori democratici il più adatto a sconfiggere Trump, ed è avanti nei sondaggi pre-primarie. Ma ci sono diversi “ma”. Quello più semplice, e cinico se vogliamo, è che Biden avrà 77 anni nel 2020; piccole amnesie e tic di un’età avanzata non gli difettano. Julian Castro, in maniera un po’ brutale e anche autolesionista, gliel’ha rinfacciato al dibattito. Ma il vero problema è più profondo, ed ha a che fare con la politica dei nostri anni.

 

Non solo Sanders

Hillary Clinton era una perfetta candidata competente e centrista nel 2008; eleggibile al 100%. Però le primarie le ha vinte Obama, allora poco conosciuto senatore dell’Illinois, per giunta afro-americano. Hillary ha vinto le primarie nel 2016, ma il suo rivale Bernie Sanders (bianco, dichiaratamente socialista democratico) ha conquistato più di 20 stati. Sanders è ancora in corsa, oggi, ed ha un seguito quasi del 20% nei sondaggi, a meno di dieci punti da Biden. Propugna un’agenda da welfare del nord-europa: assistenza sanitaria universale (Medicare-for-all), incentivi al lavoro, moderato protezionismo commerciale, controllo delle armi. Il vecchio Bernie ha grande competenza, è un oratore appassionato anche se poco empatico, e –pur dichiarandosi amico di Biden (a friend of mine and a very decent human being, un’espressione splendida)- gli rinfaccia il suo centrismo. Se ci fosse solo Sanders, il destino delle primarie sarebbe nuovamente segnato, e Biden diverrebbe a luglio 2020 lo sfidante di Trump. Ma Elizabeth Warren è della partita.

 

L’agenda liberal di Elizabeth Warren: eguali opportunità per tutti

Spero ci sia modo in futuro di descrivere più in dettaglio su queste pagine la Senatrice Warren. In estrema sintesi, Elizabeth Warren è, come era Obama, una grande singolarità politica americana. Figlia della middle-class impoverita del Midwest, ha vissuto la giovinezza in precarie condizioni economiche. Ha fatto lavori umili, per pagarsi gli studi. Ha cresciuto una figlia quasi da sola. E alla fine è diventata professoressa ad Harvard e poi Senatrice eletta a Boston. La sua agenda è radicalmente liberal, ma al contempo americana fino al midollo: Warren lotta da sempre contro i monopoli e le malversazioni delle grandi companies che limitano, a suo dire, la crescita del popolo americano. La sua agenda per l’elezione contiene una serie dettagliatissima di policies, che divulga con pazienza e grande oratoria, rimanendo sempre sui temi e sulla necessità di ridare parola ai cittadini. Scherzosamente, si dice che la Warren possa, su ogni problema, affermare: I have a plan for that.

Un’agenda liberal che configura un populismo dolce, simile nell’approccio a quello di Franklin Roosevelt e, in parte, JFK. Warren, ad esempio, difende Medicare-for-all, per togliere alle case farmaceutiche e assicuratrici i loro immensi profitti ottenuti grazie al sistema distorto della sanità americana. La sua scelta di appoggiare la sanità universale non deriva in primo luogo –come per Sanders- in ragione di un diritto sociale. La ragione di base è la possibilità, per qualunque cittadino americano, di raggiungere la propria felicità indipendentemente dal proprio stato di salute. Elizabeth Warren non ha mai detto, e secondo me non dirà mai, che occorre prendere esempio dal sistema sanitario canadese o svedese, come ha fatto Sanders. Piuttosto “american way”, reali eguali opportunità per tutti, anche gli immigrati irregolari. Per tutto questo, la senatrice Warren, così come fece Obama, insidia apertamente il dogma politico dell’eleggibilità. “Se siamo seri nell’idea di vincere le elezioni, non possiamo avere paura di perderle, e comportarci di conseguenza”. Traducendo: Trump si batte col coraggio delle proprie idee, non con la selezione per paura di un candidato che possa apparire innocuo al popolo americano

 

La strategia della Warren è la più promettente

All’indomani del dibattito, molti osservatori si sono focalizzati sull’inattesa combattività di Biden, sull’eloquenza di Buttigieg e Booker, sulla passione di Beto O’Rourke. Elizabeth Warren non ha avuto nessun momento “alto” nel dibattito. Ma tutti sono d’accordo nel dire che la strategia della Warren è la più promettente. Non le darà la leadership a breve nei sondaggi, ma su tempi medio-lunghi potrebbe funzionare (come successe ad Obama). E’ l’unica, del resto, che ha incrementato stabilmente i propri consensi negli ultimi mesi. Ed è quella che gli spettatori hanno trovato più convincente, in un sondaggio molto ampio fatto appena prima e appena dopo il dibattito da Ipsos America.

Per ora la scommessa funziona. Focalizzandosi sulle policies, sul suo messaggio liberal di eguaglianza delle opportunità, sulla sua storia e credibilità personale, Warren ha sin qui ignorato il rumore quotidiano della campagna, esattamente come fece Obama nel 2008. Può davvero farcela? Non è facile prevederlo. Biden è molto meno usurato di Hillary Clinton ed è genuinamente empatico. La Warren, d’altro canto, non ha il carisma di Barack Obama. Infine, la sola idea di 4 anni ancora di Trump terrorizza gli elettori e i simpatizzanti Democratici, e molti sembrano davvero pronti a scegliere chiunque pur di avere la garanzia di batterlo.

Ma la stessa presenza di Elizabeth Warren nella sfida sottintende una lezione, anche per noi che stiamo al di là dell’oceano. Siamo sicuri che darsi una strategia politica chiara, onesta, coerente e solida, decisamente riformista, senza paura di rompere consorterie, non possa  –a medio termine- far tornare a vincere il nostro Partito Democratico? O siamo rassegnati ai nostri Biden: Prodi nel migliore dei casi, Conte quando va piuttosto male, in un tragico contesto consociativo suggellato dal sistema proporzionale?

Non ho risposte, se non believe in what can be, unburdened by what has been.

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