di Danilo Di Matteo
Il presidente Putin, in occasione dell’anniversario della proclamazione – il 1° ottobre 1949 – della Repubblica popolare cinese, all’indomani dell’astensione di quest’ultima, accanto a India e Brasile, rispetto a una risoluzione Onu di condanna dell’occupazione dell’Ucraina, ha inviato un messaggio a Pechino volto a sottolineare la critica all’egemonia statunitense e occidentale, in vista di un ordine mondiale più equo e democratico. Nel solco, aggiungo, della celebre dichiarazione comune russo-cinese del 4 febbraio scorso: “il liberalismo è morto. Noi siamo il futuro”.
Balza subito agli occhi l’aggettivo “democratico”. Già nell’immediato dopoguerra, in realtà, nella sfera d’influenza sovietica, veniva accantonata l’espressione “dittatura del proletariato”, sostituita dalla nozione di “democrazia popolare” (in alternativa alle democrazie “borghesi”). Non a caso, a proposito dei Paesi del Patto di Varsavia, si parlava anche da noi, appunto, di “democrazie popolari” (tutti sappiamo ad esempio quale fosse il nome ufficiale della Germania est). E “popolare” torna nella denominazione ufficiale, appena ricordata, della Cina dopo la vittoria della rivoluzione guidata da Mao.
Nei decenni della decolonizzazione e dell’emergere prepotente della questione del rapporto tra Nord e Sud del globo, poi, serpeggiava l’idea che le nostre democrazie liberali fossero roba “per ricchi”, per Paesi sviluppati e opulenti (a onor del vero, già Benito Mussolini parlava di “democrazie plutocratiche”). Da qui, oggi, l’appello del presidente russo al “Terzo mondo”. Un appello da contrastare con decisione, sia favorendo l’estensione della democrazia e dello Stato di diritto, sia provando sul serio a correggere gli squilibri nella distribuzione planetaria delle risorse, di cui siamo corresponsabili. E, pure, con una maggiore “porosità” e apertura mentale rispetto alla nozione di democrazia, accogliendo idee e suggestioni esterne all’Occidente. Mi trovo qui di nuovo a far riferimento a Salvatore Veca, il quale, citando le Memorie del grande Nelson Mandela, ricordava come si possa apprendere anche dalle forme di partecipazione e di democrazia di alcuni villaggi africani. Insomma: per contrastare efficacemente le “democrature” (quelle combinazioni mostruose di suffragio universale e metodi autoritari e dittatoriali), dovremmo evitare di ripetere “la democrazia siamo noi”.
E la replica più eloquente all’appello di Putin (e magari di Pechino) al Terzo mondo è rappresentata dalle piazze dell’Iran (e non solo) che invocano libertà, prima di tutto per le donne. Una replica tragica, ahinoi; non si tratta di cinguettii telematici, bensì di corpi, di sangue, di cadaveri. Si tratta di ragazze uccise per il rifiuto di un copricapo, della sofferenza indicibile dei loro familiari, dei loro amici. Corpi e sangue che dovrebbero spingerci a non ridurre la democrazia a un motivo di vanto e a lottare per tradurla in fatti e conquiste per miliardi di esseri umani.
Psichiatra e psicoterapeuta con la passione per la politica e la filosofia. Si iscrisse alla Fgci pensando che il Pci fosse già socialdemocratico, rimanendo poi sempre eretico e allineato. Collabora con diversi periodici. Ha scritto “L’esilio della parola”. Il tema del silenzio nel pensiero di André Neher (Mimesis 2020), Psicosi, libertà e pensiero (Manni 2021), Quale faro per la sinistra? La sinistra italiana tra XX e XXI secolo (Guida 2022) e la silloge poetica Nescio. Non so (Helicon 2024) È uno degli autori di Poesia e Filosofia. I domini contesi (a cura di Stefano Iori e Rosa Pierno, Gilgamesh 2021) e di Per un nuovo universalismo. L’apporto della religiosità alla cultura laica (a cura di Andrea Billau, Castelvecchi 2023).