di Pasquale Pasquino
Il quadro politico italiano ha subito una mutazione accelerata nel giro di poche settimane. Il disordine sotto il cielo della Repubblica non è necessariamente sorprendente. Basta essere consapevoli dei movimenti tellurici che, con sospensioni e accelerazioni alternanti, hanno caratterizzato la vita del governo rappresentativo in Italia a partire dalla fine della lunga egemonia democristiana, che aveva caratterizzato la vita politica per quasi 40 anni.
Nelle ultime settimane quattro eventi decisivi hanno modificato in modo significativo lo statu quo e aprono su scenari nuovi e senz’altro difficilmente prevedibili se non nelle grandi linee.
Uno. Al punto di partenza la decisione di Italia viva (che brutto nome) di far cadere il governo Conte bis. Decisione rafforzata e confermata dalla volontà dell’allora primo ministro di non scendere a patti con il piccolo partito di Renzi, malvisto per ragioni diverse dai suoi vecchi nemici dentro il PD e dai suoi amici che hanno preferito non seguirlo nella sua scelta di exit. Ma nella democrazia parlamentare per governare e anche per galleggiare ci vogliono i numeri per una maggioranza nelle assemblee rappresentative (in Italia paradossalmente in entrambe di esse).
Due. Dopo aver provato tutte le maggioranze possibili in un Parlamento spaccato in tre parti dopo le elezioni del 2018, dinanzi alla prospettiva irragionevole di convocare nuove elezioni nel corso di una violenta ripresa della pandemia e, scelta estrema e grave, prima della scadenza del mandato parlamentare, il presidente della Repubblica, come indica la costituzione, ha dato incarico di provare a formare un nuovo governo a Mario Draghi. Draghi, dopo consultazioni con tutte le forze politiche e in virtù del loro accordo, ha proposto una compagine di governo che ha ottenuto una larghissima fiducia del Parlamento. Un governo espressione dell’accordo fra partiti politici e non imposto da nessuno, ma voluto da quasi tutti coloro che hanno il potere di dare il loro consenso o di negarlo ad un potenziale esecutivo.
Tre. Il premier del governo uscente, Conte, indicato dal PD come leader di una maggioranza PD/5S sopravvivente alla caduta del suo esecutivo si è deciso al gran passo di accettare l’offerta di diventare il “capo politico” di un M5S che non ha più né un leader spendibile né una identità qualsiasi. Egli è alla ricerca di quest’ultima da far apparire sul mercato dell’offerta politica e fra qualche settimana dovrebbe svelarne i contorni, se non proprio i contenuti. Si è sentito odore di posizioni centriste tinte di vaghe antiche proposte ecologiste e futuriste, da precisare. Vedremo.
Quattro. Intanto l’altro partito dell’ultima coalizione, il PD del segretario Zingaretti, ha reagito a questa scelta e forse soprattutto alla paura di disfacimento, chiamando alla segreteria (cioè alla direzione del partito) quell’Enrico Letta che aveva costituito il primo governo con la destra berlusconiana e che il PD, tutto, aveva liquidato, e che ora ripesca dai suoi impegni accademici parigini.
Questa mossa ha, in misura che capiremo meglio nei prossimi mesi, scompaginato i piani di una possibile alleanza fra PD e il neopartito di Conte. Questa sembrava basata (forse) su una divisione del mercato politico fra i due partiti dove l’ala centrista sarebbe stata coperta da Conte. Con il PD, vecchia sinistra, al seguito.
Letta però nel suo discorso all’Assemblea del PD ha preso una decisa posizione a favore di un revival dell’Ulivo di Prodi, capace di tenere insieme tutto il tradizionale schieramento del centro sinistra, più i nuovi 5S.
La sfida è certamente difficile ma è la sola che abbia un senso in un sistema – che piaccia o meno – nuovamente bipolare dove, fra il PD di Letta e i 5S (o come si chiameranno) di Conte, ci sarà una competizione per l’egemonia, mai poi una necessaria alleanza per battere la forza alternativa: la destra a verosimile egemonia leghista.
La conclusione provvisoria di queste quattro mosse che hanno scompaginato la politica del paese è per l’appunto la rinascita del bipolarismo che obbliga un sistema partitico frammentato e litigioso a strutturarsi su coalizioni bipolari.
Questo dato permette di riflettere su una possibile riforma elettorale che continua ahimè ad attraversare da anni e spesso in modo confuso e eccessivamente partigiano il dibattito politico.
Certo le leggi elettorali che sono competenza delle maggioranze parlamentari sono spesso espressione degli interessi di breve periodo di queste. Ma una logica di tal genere introduce una instabilità permanente nella regola che decide dell’espressione di ciò che chiamiamo “volontà popolare” attraverso l’aggregazione delle preferenze individuali. Una instabilità ed una partigianeria intollerabili in un ragionevole governo rappresentativo.
Nel quadro di un bipolarismo ordinato una legge elettorale proporzionale con un limitato e predefinito premio di maggioranza ha un certo numero di qualità, conto le quali si avanzi chi dice meglio. La dimensione proporzionale dà a tutte le forze politiche grandi e piccole una possibilità di presenza e di espressione nelle assemblee rappresentative. Ma un correttivo limitato deve essere introdotto per garantire un minimo di stabilità ai governi, precondizione necessaria anche se non sufficiente da sola a garantire la possibilità di una democrazia governante e non solo preoccupata delle scadenze elettorali e della ri-elezione degli eletti.
Tale correttivo può essere introdotto dalla legge che assegna alla coalizione che arriva in testa, senza ottenere il 50+1 dei seggi, un bonus limitato, ad esempio il 55% e non oltre dei seggi, che le permetta una minima maggioranza stabile in Parlamento.
Alternativamente e meglio, si può immaginare l’esistenza di un secondo turno fra le due coalizioni che al primo turno abbiano ottenuto i migliori risultati. In questo caso, la vittoria di una di esse non sarebbe una automatica conseguenza della formula elettorale (oggetto della critica della Corte Costituzionale, si veda a proposito la sentenza 1/2014), ma quella della scelta degli elettori che assegnerebbero ad una delle due coalizioni una maggioranza popolare.
In questo ragionamento si vede che un ruolo decisivo è attribuito appunto alle coalizioni piuttosto che ai partiti in quanto tali.
Ma questo deriva dal fatto che il sistema politico italiano (in forme da definire sul fronte del centro-sinistra) si è bi-polarizzato, nonostante la molteplicità rigogliosa dei singoli partiti. E che l’esperienza della legislatura abnorme che è iniziata nel 2018 con un parlamento diviso in partes tres che si scambiavano le alleanze ha condotto ad un governo che si è arenato come una nave nella tempesta fra sabbie che le hanno impedito di governare.
Il tripolarismo è morto. Il proporzionalismo populista è in coma. Adesso i partiti devono scegliere sul serio la democrazia dell’alternanza. E possono farlo solo schierandosi entro le linee di una civile competizione bipolare. Che non ha ragione di schiacciare la rappresentanza pluralistica in seno al Parlamento.
Prima o poi – e meglio prima che poi – a un tale approdo il sistema politico italiano dovrà arrivare.
Pasquale Pasquino, nato a Napoli nel 1948, è Director of Research al French National Center for Scientific Research (CNRS) nonché docente di Politics and Law alla New York University. Dopo gli studi di filologia classica, filosofia e scienze politiche ha pubblicato ricerche sulla storia delle idee relative allo Stato e alle costituzioni. In anni recenti la sua ricerca si è concentrata sulla giustizia costituzionale in una prospettiva costituzionale. In passato ha lavorato presso il Max Planck Institute di Göttingen, il Collège de France e il King’s College di Cambridge.
Salve
Io non vedo “la rinascita del bipolarismo”, e tutto mi sembra in grande indefinitezza.
Nella breve (e artificiosa) stagione del Conte II viè stato uno schierarsi bipolare, ma appunto artificioso, nato per un colpo di mano dalle reali motivazioni piuttosto riposte, e durato oltre tempo per l’emergenza pandemica., estraneo a una vera legittimità elettorale.
Ops limite di caratteri?????