Vediamo qual è il principale problema dell’economia italiana. Non parliamo delle sue conseguenze (alta disoccupazione, salari bassi, scarsa competitività), perché queste sono le conseguenze, ma quali sono le cause? Il punto principale è la capacità di produrre ricchezza. E il valore aggiunto si produce per due strade: aumento della capacità delle imprese e degli investimenti pubblici di produrre ricchezza. Vediamo allora come stanno le cose, anche perché i numeri che seguono, en passant, spiegano buona parte della rabbia degli italiani.
Nel 2017, dopo alcuni anni di ripresa dell’economia, la ricchezza prodotta è ancora del 5,7% più bassa rispetto a quella del 2007, cioè di dieci anni prima. Più bassa addirittura in valore assoluto! Tradotto, significa che nel paese la capacità di produrre reddito è ancora inferiore a quella del 2007. Se in questi dieci anni avessimo avuto una crescita zero, cioè fossimo riusciti a mantenere lo stesso reddito, senza riduzioni e senza aumenti, seguendo le stime di Pierluigi Ciocca, avremmo oggi accumulato circa 1.000 miliardi di reddito disponibile. Quante cose si sarebbe potute fare con 1.000 miliardi in più?
La crisi
Se guardiamo agli anni peggiori della crisi, che vanno dal 2008 al 2014, il pil complessivo accumulato è caduto del 10% e gli investimenti del 30%. Una caduta clamorosa, la peggiore della storia italiana, tanto che negli Anni ’30, quell’epoca che ogni tanto rivediamo nei filmati in bianco e nero, con persone che chiedono l’elemosina per mangiare, la caduta era stata del 5%. Questo per dare esattamente la misura della caduta di questi anni. Mentre negli Anni ’30 ci siamo comunque risollevati, da questa del 2008, non lo abbiamo ancora fatto, anzi abbiamo per il 2018-19 previsioni di crescita inferiori a quelle del 2017.
Allora andiamo al cuore delle cose (e delle cause). Prendiamo un elemento che sta alla base, se non di tutto, di molto di quel che succede nella produzione del reddito: si chiama “stock di capitale non residenziale”. Per chi è affezionato alla terminologia marxista, ma anche per gli altri, è il capitale. È un indicatore cruciale, perché indica la misura della capacità industriale di un paese.
Vediamo i dati, che sono clamorosi. Tra gli Anni ’70 e gli Anni ’80 lo stock di capitale è cresciuto mediamente del 7% (una piccola Cina, diremmo oggi); dal 1992 al 2009 è cresciuto ancora, sebbene in misura minore, fermandosi al 2,5 %. Ed ecco la notizia clamorosa: dal 2010 al 2017, cumulativamente, è caduto del 10% (Dati Servizio Studi Bankitalia). Cioè è diminuito in valore assoluto! Questo significa che oggi abbiamo una capacità di produrre beni e servizi, e per conseguenza ricchezza e reddito da distribuire, del 10% inferiore a quella di sette anni fa.
Se lo stock di capitale è diminuito, lo stesso è avvenuto per gli investimenti pubblici, e in maniera ancora, se possibile, più clamorosa. Nel 2009 gli investimenti pubblici sono stati 54 miliardi, nel 2017 sono stati 30 miliardi. Una caduta netta.
In sostanza, gli investimenti fissi lordi non sono neppure serviti a rimpiazzare il capitale esistente (appunto il 10 % in meno dello stock di capitale) e gli investimenti pubblici, anche se non c’è un dato con cui fare il confronto, sicuramente sono stati inferiori all’usura delle infrastrutture esistenti (ponti, strade, difesa del suolo, infrastrutture di ogni tipo). Gli esiti del degrado li vediamo ogni giorno. Sia perciò che guardiamo all’industria in senso stretto, sia che guardiamo alla dotazione di capitale pubblico (perché così sono da intendersi le infrastrutture), siamo andati indietro, mentre tutti gli altri paesi europei (si ripete, tutti tranne la Grecia) sono andati avanti.
Questa la malattia, allora il farmaco?
Il farmaco giusto non è difficile da individuare: investire nelle opere pubbliche, accrescere il capitale pubblico, sostenere le imprese nella loro rincorsa all’innovazione tecnologica, che è oggi il modo con cui si accresce la capacità competitiva e lo stock di capitale.
Si vede qualcosa del genere? Piuttosto si vede il contrario, vediamo aumentare la malattia piuttosto. Dovremmo fare più opere pubbliche, e invece fermiamo persino quelle in via di completamento; dovremmo abbassare il fabbisogno dello stato per redistribuire redditi e aumentare la dotazione di risorse per gli investimenti e invece aumentiamo la spesa per assistenza e pensioni; dovremmo fare uno sforzo eccezionale per accrescere la digitalizzazione delle imprese, e invece fermiamo persino il programma di Industria 4.0 che aveva appunto quell’obiettivo.
Più chance alla mobilità sociale
Si dice: abbiamo la priorità di rispondere a una iniqua distribuzione del reddito. È vero, in questi anni, dovunque, i ricchi sono diventati più ricchi, e le classi medie hanno subito un downgrading. Qual è il modo per invertire questa tendenza? Facendo crescere l’economia e dando così più chance alla mobilità sociale. Se stiamo fermi, anche le classi sociali stanno ferme. Ci chiediamo: il reddito di cittadinanza, per esempio, aumenta la crescita dell’economia (difficile pensarlo, se i problemi sono quelli prima citati) o semplicemente perpetua lo status quo? Se i lavori non ci sono, come faranno coloro che avranno un reddito di cittadinanza, a uscire dallo status di assistenza?
Altra risposta: la leva dei consumi sostiene la crescita. È un meccanismo tipico degli Stati Uniti. Lì quando vuoi riaccendere l’economia sostieni i consumi. Però in un paese che riduce la sua capacità di produrre beni, l’aumento dei consumi va in buona parte a dirigersi verso beni prodotti da altri paesi. Se non aumentiamo la nostra capacità produttiva, accresceremo le economie altrui, non la nostra.
Forse il retro-pensiero di questa linea di politica economica è semplicemente che il nostro paese sarebbe incapace di competere al livello mondiale, non ha futuro, e perciò deve gestire il presente con assistenze di vario tipo. Ci sarebbe solo l’assistenza, perché la partita grande (cioè la competizione economica mondiale) è perduta. Sono le profezie che si avverano, direbbero gli psicologi. Significa assumere una paura come una realtà, e alla fine determinarla. Perché se daremo più assistenza, l’anno prossimo registreremo ancora meno investimenti pubblici, e ancora meno stock di capitale sarà disponibile e perciò ancora inferiore sarà la nostra capacità di generare ricchezza.
Investire su noi stessi
Però è una profezia che ha degli antidoti molto forti: siamo un paese che riesce a esportare in maniera molto efficace; siamo leader in alcuni settori industriali non secondari; abbiamo una reputazione sulla qualità dei prodotti non inferiore a nessuno. Insomma è un paese in piedi, con talento da spendere. Chi ha detto che non abbiamo futuro?
C’è però l’illusione autarchica, che è appunto un’illusione. È l’idea che possiamo far da noi, che ci possiamo chiudere al mondo e possiamo vivere come fossimo un’isola. Di solito le isole sono pensate felici. Ma è un’illusione ancora peggiore. Ricordiamo: l’Italia rappresenta “appena” l’1,8 % della produzione mondiale di ricchezza. È più facile che il 98,9 % possa fare a meno dell’1,8 % che l’1,8 % fare a meno del 98,9 %. Verità dura, ma verità.
Allora cerchiamo i farmaci giusti: investiamo su noi stessi, sulla fiducia nelle nostre capacità, piuttosto che sul nostro isolamento. Abbiamo un mondo da conquistare. Abbiamo un’altra profezia da avverare.
Economista, docente all’Università di Firenze. È cresciuto al Censis, ha insegnato alla Luiss Management, Università di Bolzano, ha diretto l’Agenzia del turismo di Firenze, ha lavorato per Banca Imi e altre imprese. Ha ricoperto la carica di Consigliere d’Amministrazione di Enit e Vice Presidente di ETC (European Travel Commission). Collaboratore del Corriere della Sera. Svolge professionalmente studi e ricerche per Sociometrica, di cui è Direttore. Twitter @apreiti web www.antoniopreiti.it