di Vittorio Ferla
La Marcia della pace Perugia-Assisi del 24 aprile e la Festa della Liberazione del 25 aprile hanno riacceso, da prospettive e con declinazioni diverse, le polemiche relative all’aggressione della Russia contro l’Ucraina. Troppo forte la sensazione di un trito déjà vu che nemmeno le atrocità commesse dall’esercito di occupazione sono riuscite a scalfire.
Quest’anno lo slogan della marcia della pace Perugia-Assisi era davvero largo e inclusivo. Perfino Vladimir Putin avrebbe potuto parteciparvi. “Fermatevi! La guerra è una follia”, in fondo, è proprio quello che il capo del Cremlino chiede agli ucraini almeno dal 2014, l’anno in cui la Russia occupa la penisola di Crimea e innesca le ostilità nel Donbass dove Putin sostiene e riconosce le repubbliche separatiste autonome violando clamorosamente le norme del diritto internazionale. Oggi, infine, il Cremlino prende di mira l’intera Ucraina con l’obiettivo di cancellarne l’identità e di russificarla. L’appello promosso dalla marcia della pace recita: “Fermare la guerra vuol dire negoziare subito, con determinazione, su tutto: il cessate il fuoco, i corridoi umanitari, la fine della guerra, la sicurezza per tutti, il disarmo, il rispetto dei diritti umani di tutti, comprese le minoranze. Tutte le strade vanno percorse. Bisogna dialogare con tutti”. Come si fa a non condividere l’ispirazione di questo grido di dolore? Ma resta la domanda: come ha risposto finora Putin? La risposta è semplice: dicendo no a tutto. Massacri di civili, devastazione degli edifici, stupri delle donne e dei bambini, fosse comuni della popolazione trucidata, deportazioni forzate in Russia, fuoco sulle persone in fuga nei corridoi umanitari: questa è la volontà di pace del capo del Cremlino. “E’ urgente l’apertura di un negoziato multilaterale serio, strutturato, concreto, onesto e coraggioso, sotto l’autorità delle Nazioni Unite. Il Segretario Generale dell’Onu, i responsabili dell’Unione Europea e della politica internazionale lo devono fare ora!”, dice ancora l’appello. Peccato che Putin abbia chiarito che tutto questo non avverrà finché gli obiettivi di conquista non saranno completati. Ora, l’ispirazione escatologica della marcia Perugia-Assisi è apprezzabile, ma, se vivi nel mondo, devi sapere che alle tue azioni corrispondono delle conseguenze. Che interrogano la tua responsabilità. La pace è un principio che va incarnato nella storia. Nessuno dei promotori o dei partecipanti lancia appelli a Vladimir Putin. Quasi tutti dichiarano, senza se e senza ma: “bisogna fare tutto per la pace, a partire dall’interruzione della fornitura di armi agli ucraini”. Ma la pace coincide con l’assenza di guerra e con il silenzio delle armi? Messa così, la pace che si proclama è la schiavitù dell’Ucraina. Senza libertà, giustizia, democrazia, la pace è possibile? Ovviamente no. Ma ricordiamoci sempre che, mentre infuriava la seconda guerra mondiale, in un certo modo a Buchenwald e Auschwitz regnava la pace. Se la strategia del buonismo irenico e inconcludente è quella che emerge dalla Perugia-Assisi bisogna sapere che ci prepariamo alla trasformazione dell’Ucraina in un campo di concentramento.
Altra storia quella del 25 aprile. Delle rumorose proteste contro Letta “servo della Nato”, contro le bandiere americane, contro la Brigata ebraica e, perfino, contro gli ucraini accusati di essere dei nazisti sappiamo già tutto. Quella di lunedì scorso è stata semplicemente l’ennesima riproposizione della polemica eterna imbastita dai cascami del settarismo ideologico antioccidentale. Tra i quali c’è anche quel Gianfranco Pagliarulo, già parlamentare cossuttiano filosovietico e oggi presidente dell’Anpi, che per settimane ha rilanciato le veline di Mosca accusando il governo di Kiev di “nazismo” e negando il diritto alla resistenza del popolo ucraino, salvo poi ricredersi dopo la lavata di capo pubblica subita dal presidente Sergio Mattarella. Il 25 aprile abbiamo assistito all’espressione dei più frusti cliché del cattivismo reazionario antiamericano: la lotta partigiana è solo comunista, la resistenza è una rivoluzione tradita, il fascismo non è altro che il capitalismo, (quindi) la liberazione è quella delle classi oppresse contro i capitalisti, i fascisti più fascisti di tutti sono gli americani. Per costoro tutto ciò che si oppone ai valori dell’occidente immorale e capitalista è benvenuto: che poi è esattamente il pensiero di Putin. La storia ci racconta che la resistenza non avrebbe potuto aver alcun successo senza il contributo degli alleati alla liberazione dell’Italia e senza la fornitura di armi occidentali ai nostri partigiani. Ma questi fatti non possono essere accettati. La storia va falsificata e capovolta perché solo così è possibile proseguire oggi l’eterna battaglia ideologica contro il fascismo di comodo. E così gli ucraini diventano ‘nazisti’ come vuole la manipolazione propagandistica di Putin, mentre il presidente russo diventa un amico perché è il “nemico del mio nemico” (cioè l’America). Procedendo così, con questi cortocircuiti intellettuali e morali si finisce nell’abisso della paranoia e del paradosso. Proprio quelli che vedono i fascisti da tutte le parti e che di volta in volta accusano il nemico di turno (da Berlusconi a Renzi, a Draghi) di essere un dittatore o un servo dell’America, quando si trovano un dittatore fascista fatto e finito come Vladimir Putin nemmeno lo riconoscono come tale. Allo stesso modo, gli stessi che per decenni hanno vissuto nel mito della resistenza e della lotta partigiana, appena si trovano davanti un popolo innocente e indifeso come quello ucraino, aggredito e violentato in modo barbaro da un aggressore ispirato da una ideologia neonazista, invece di sostenerlo a spada tratta, rinnegano i valori di libertà e di democrazia conquistati con la liberazione del ’45, stigmatizzano i resistenti come ‘nazisti’, dicono no alla fornitura di armi che metterebbero finalmente le vittime nelle condizioni di difendersi. È la forza della ideologia contro la gli argomenti della logica.
Questo singolare mix pacifista di buonismo irenico e di settarismo antioccidentale è molto più diffuso di quanto si possa immaginare in parlamento, nell’accademia e nei media nazionali. E, a dispetto della determinazione di Draghi e Mattarella, fa dell’Italia il paese più inaffidabile nell’alleanza delle democrazie contro il tiranno sanguinario che ha riportato la barbarie nel cuore dell’Europa.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).