di Alfonso Pascale
Le esternazioni di Salvini durante la drammatica vicenda dei profughi eritrei, accolti a bordo della nave Diciotti e finalmente lasciati sbarcare dopo dieci giorni di convulse trattative, hanno segnato ancora una volta il ritorno in campo di un linguaggio e di un immaginario collettivo di tipo razzista. Il nemico, prima da combattere e poi da espellere, è stato in questo caso chi è scappato dalle guerre e ha chiesto asilo.
La tragicommedia è stata predisposta ad arte dal ministro dell’Interno perché non siamo in presenza di un’emergenza da gestire. Quel flusso eccezionale che si era creato negli anni scorsi era stato ridimensionato notevolmente con le politiche messe in atto da Minniti. Ci troviamo, pertanto, dinanzi ad una messinscena che si ripete a intervalli di tempo molto ravvicinati e a cui partecipano intere comunità di utenti dei social. Migliaia di persone assimilano e diffondono, mediante le modalità della propaganda virale ideata da Gianroberto Casaleggio, quel linguaggio e quell’immaginario collettivo di tipo razzista attivati da Salvini.
Alcuni episodi recenti
Le aggressioni di stampo razzista sono state molteplici dalla primavera del 2017 fino a questa estate. Ne ricordo soltanto alcune a partire da quelle subite da Agitu Idea Gudeta, la sociologa e imprenditrice etiope che in Trentino ha messo su una azienda agricola particolare, un modello di produzione biologicache mantiene l’ambiente, recuperando terreni abbandonati e capre rustiche del luogo. Agitu è stata aggredita fisicamente, le gomme della sua macchina e dei macchinari da lavoro bucate. Le minacce sono culminate con una capretta sgozzata davanti casa.
Alla vigilia delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, in una cittadina di provincia come Macerata, Luca Traini ha sparato dalla sua auto a diverse persone africane. E a seguito di tale episodio la Lega è risultato il partito più votato, con il 21% dei voti. Un successo ancor più significativo dopo che i sondaggi l’avevano piazzata allo zero virgola.
Nel giugno scorso, tra la vecchia tendopoli di San Ferdinando in provincia di Reggio Calabria e un vecchio stabilimento abbandonato in località “ex Fornace” di San Calogero, Sacko Soumayla, ventinovenne maliano, è stato ucciso da un pallettone di fucile centrato alla testa. A sparare è stato un agricoltore proprietario del terreno dove Sacko, insieme a due suoi amici maliani, stava prendendo delle lamiere per sistemare gli alloggi di fortuna nella tendopoli.
Queste aggressioni sono state strumentalizzate da Salvini per fomentare la percezione di una inesistente “emergenza immigrazione” e riscuotere un alto consenso intorno alla promessa del pugno di ferro nei confronti dei profughi al fine di rispedirli nei loro Paesi d’origine.
I caratteri dell’idea italiana di razzismo
Vorrei ragionare su queste vicende partendo da alcune domande: quali sono le caratteristiche del linguaggio e dell’immaginario collettivo di Salvini e dei suoi fan? Sono effettivamente riconducibili al razzismo?
In un articolo apparso sul “Foglio” (31 agosto 2018) Luigi Mangoni avverte che “la paura degli italiani è qualcosa di assai difficilmente decifrabile e razionalizzabile”. E precisa: “È ciò che dovremmo definire xenofobia, che è cosa assai diversa dal razzismo. E che non è destinata – né fatalmente, né rapidamente – a trasformarsi in razzismo. Per questo, da decenni, ritengo che vada usato con estrema parsimonia e solo quando strettamente indispensabile il termine ‘razzista’ e che vada manovrata con estrema delicatezza la sua negazione ‘antirazzista’ affinché gli incerti, gli insicuri e gli angosciati non si trasformino in altrettanti ostili”.
Ci troviamo, dunque, dinanzi a una questione controversa che va approfondita per tentare di superare ambiguità e reticenze. Mangoni paventa il rischio che l’uso stesso della coppia razzista/antirazzista potrebbe suscitare una reazione ostile all’interno di una zona grigia molto ampia di incerti. E raccomanda un atteggiamento cauto nel maneggiare i vocaboli. Nasce così un’ulteriore domanda: gli episodi di cui parliamo sono forse da ricondurre non al razzismo ma alla xenofobia?
Per rispondere ai suddetti quesiti bisogna innanzitutto precisare che non esiste un’unica idea di razzismo. Non c’è soltanto quella che deriva dall’esaltazione di una superiorità di sangue, come siamo soliti pensare. Non c’è esclusivamente quella coltivata dal social-nazionalismo tedesco. C’è anche l’idea di razzismo che scaturisce da una chiamata a raccolta per ritrovare i fondamenti della propria comunità minacciata. Ed è questa seconda idea all’origine delle leggi razziali del fascismo contro gli ebrei approvate nel 1938. Un’idea che nasce da un coacervo di modi di pensare degli italiani che provengono da periodi storici a noi lontani.
La legislazione razziale in Italia maturò nel dibattito che accompagnò la guerra italo-etiopica (1935-36). Basta leggere la relazione di R. Sertoli Salis al terzo congresso di studi coloniali (Firenze, 12-17 aprile 1937) per comprendere a quale tipologia razzista faceva riferimento quel dibattito.
“Poiché i cittadini – affermava Sartoli Salis – costituiscono il popolo italiano e il popolo italiano – continuità di tradizioni, di cultura, di lingua, anche se non unità di razza – è l’elemento costitutivo della Nazione, è evidente che dell’Impero, massimo grado dell’evoluzione nazionale, non possono far parte che i cittadini. Gli indigeni sono bensì nell’Impero, massimo grado dell’evoluzione nazionale, ma non ne fanno parte che in senso improprio, perché non fanno parte del popolo italiano, né della Nazione, ma soltanto dello Stato. Se di razzismo imperiale si può parlare nei confronti degli indigeni, esso è ben lontano da odi o esclusivismi; al pari di ogni concetto di gerarchia, che comporta di una maggiore complessità di funzioni e di doveri per i gerarchi, la gerarchia di razza non esclude il benessere e il miglioramento delle popolazioni indigene, anzi li presuppone, in quanto la funzione di comando è diretta al comune interesse e al raggiungimento dei comuni scopi del comandante e del comandato. Differenziazioni dunque di funzioni tra le due razze, la bianca e la nera, e necessità conseguente di evitare ogni ibridismo che segnerebbe, per così dire, la zona grigia tra la funzione del comando e la funzione dell’esecuzione”.
Si tratta di un testo esemplare per comprendere il razzismo fascista e non confonderlo con quello del Terzo Reich. Nell’idea italiana di razzismo si nega la visione del popolo italiano come “unità di razza”. Si afferma, invece, un’altra dicotomia: gli indigeni dei Paesi colonizzati appartengono allo Stato e non alla Nazione. Si rifiuta l’ibridismo tra italiani e indigeni. Si richiama l’attenzione affinché non si produca una “zona grigia” tra funzioni degli uni e degli altri. Non si tratta, dunque, di perseguitare, annientare o sterminare gruppi umani di un’altra razza, ma di edificare una piramide etnica assolutamente inamovibile, costruita su una stratificazione rigidamente orizzontale. Il problema essenziale è descrivere l’”altro” come estraneo alla Nazione, comunque come soggetto intorno a cui creare un “cordone sanitario” e dunque da “recintare”, “ghettizzare”, ma non da sopprimere. E la normativa razzista applica questi principi.
La tipologia italica del razzismo applicata all’antiebraismo
Come ha spiegato bene David Bidussa in un libro del 1994 “Il mito del bravo italiano” (Il Saggiatore), nel caso degli italiani ebrei, il meccanismo attuativo di questa filosofia politica ha una particolarità: mentre per gli indigeni dei Paesi colonizzati si tratta di non accoglierli nella Nazione, per gli ebrei italiani il problema è rovesciato: ovvero la questione si riformula nella modalità di esclusione, ossia sul come espellerli. La logica prescinde dall’elemento razziale e fa perno invece sulla identità: individuo = nazione. Espellere individui – precedentemente inclusi – dalla Nazione significa di fatto privarli di diritti, imporre dei doveri e, al più, sovrintendere a un esercizio limitato di alcuni diritti.
In questa chiave la legislazione antiebraica in Italia presenta alcune caratteristiche se si vuole non fisicamente violente, ma certo, inequivocabilmente, razziste. Un razzismo tipicamente italiano: si aboliscono le attività di stampa degli ebrei italiani, si limitano gli ambiti professionali del mondo ebraico. L’obiettivo di lungo periodo è quello di deprimere le caratteristiche sociali e culturali di un gruppo umano che su quelle caratteristiche ha scommesso le sue chance di emancipazione. In altre parole, l’obiettivo è la formazione e la strutturazione di un “gruppo di iloti”; prefigurazione che dovrebbe indurre ad un’espulsione o a un esodo collettivo, ma che non ha l’obiettivo, dichiarato o recondito, dello sterminio.
Il consenso popolare intorno alle leggi razziali
La forma di discriminazione razziale, prescelta in Italia e sancita da norme concrete, è stata condivisa dalla maggioranza degli italiani. Negarlo, facendo leva su una presunta naturale estraneità degli italiani a questo “virus”, è un falso storico.
È indubbio, infatti, che la discriminazione razziale messa in atto dal regime fascista si alimentava di una serie di miti legati ad una retorica del “nuovo” che veicolerebbe valori antichi e stili di vita arcaici. Il lavoro manuale comunque non meccanizzato dei campi veniva contrapposto all’innovazione tecnologica, al rumore urbano che si considerava “artificiale”. L’Italia al lavoro era quella della “campagna del grano” e dei “corpi al sole”. L’esaltazione della società rurale si fondava sul forte sentimento della proprietà, sul culto della famiglia, sul rispetto delle gerarchie e sull’attaccamento alla patria.
Su tale discorso nostalgico di preservazione di valori antichi prendeva corpo la scrittura delle regole e delle norme dell’italianità. Una forma prescrittiva dell’identità collettiva e dell’appartenenza a comunità locali chiuse che velocemente assumeva i contenuti e i significati di una spiegazione razzizzata della società e della storia. Visione che non faceva perno sul sangue bensì sulla formazione storica e sulla sedimentazione del carattere.
Il mito del contadino e del parassita
Per comprendere l’idea fascista di razzismo vanno ricordati i motivi di fondo per i quali il regime mussoliniano scelse la famiglia contadina a emblema della “società nuova” che voleva edificare.
È noto che il contadino proprietario della terra che coltiva è portato a identificare la propria dignità nel fatto di bastare a se stesso. Essere il produttore dei propri oggetti di consumo, non dipendere, è il suo tratto caratteristico di fierezza. Come afferma Georges Canguilhem in un testo molto importante per il tema che qui si affronta, “Il fascismo e i contadini” (Il Mulino, 2006), “il sentimento di autosufficienza economica e di fecondità vitale (del contadino) riflette la confusa consapevolezza dell’anteriorità dei bisogni e degli istinti rispetto alla loro regolamentazione sociale”. È per questo motivo – spiega l’illustre filosofo e storico della scienza – che “l’uomo dei campi si ritiene in credito rispetto alle altre classi e si ritiene da esse sottovalutato” e “quel che si chiama troppo alla svelta la cupidigia, l’avarizia dei contadini non è nient’altro che questa attitudine a considerare le altre classi come più o meno parassitarie rispetto alla propria, come meno fondamentalmente degne, come più frivole”.
Di questa avversione congenita del contadino per i “parassiti”, per coloro “che non vivrebbero senza di lui”, per coloro “che trovano la terra troppo bassa”, ecc., il fascismo si è servito per suscitare in chi si riconosceva in quell’emblema sociale (la famiglia contadina) – non importa se rispondente o meno alla propria reale condizione di vita – una inesauribile volontà di recriminazione dei “parassiti” che venivano loro additati, volta per volta, dal regime e dalla sua propaganda.
Su questa base venivano costruiti i “nemici” da razzizzare: gli stranieri minacciosi, i “plutogiudeomassonici”, coloro che si lasciavano ammaliare dall’americanismo, inteso come modello di civiltà alternativo e opposto a quello europeo (in termini di buon gusto, di tradizioni, di sedimentazioni storiche) e come insieme di stili di vita standardizzati ed effimeri e di stili alimentari che portano a consumare senza “degustare”.
L’antigiudaismo cattolico
C’è poi da considerare un segmento consistente – e comunque culturalmente significativo – del mondo cattolico italiano che ha seguito attentamente l’evoluzione della legislazione razziale per ragioni storiche ben precise: essa riprendeva, infatti, l’antigiudaismo cattolico, particolarmente concentrato nelle sue aree di intransigentismo e antimodernismo, già presente nel lessico e nelle argomentazioni di “Civiltà cattolica” negli ultimi decenni dell’Ottocento. Dalla Santa Sede, “L’Osservatore Romano” protestò perché venivano vietati i matrimoni misti, ma non si espresse sull’impianto generale di quelle normative ritenute, di fatto, in accordo con la tradizione della Chiesa. Bisognerà attendere il pontificato di papa Giovanni XXIII per cancellare dalla liturgia l’espressione “perfidis judeis” e avviare, con il Concilio Vaticano II, un processo di revisione dei rapporti tra il cattolicesimo e l’ebraismo.
L’argomento principale del concetto di razzismo in Italia non è, dunque, l’evoluzionismo biologico al fine di tornare mitologicamente al passato primigenio, come è apparso evidente nel Terzo Reich, ma una sorta di evoluzionismo “comunitario” che fa riferimento alla costruzione dell’italianità.
La partecipazione della popolazione italiana alla tragedia della Shoah
Ci sono, come si è visto, molteplici indizi che portano a ritenereche una parte della popolazione italiana abbia avuto un ruolo nella complicata macchina della Shoah. Non ci sono stati solo casi di aiuto e di soccorso nei confronti degli ebrei perseguitati, con tutti i rischi che ciò comportava. Non c’è stata solo l’esperienza resistenziale o quella repubblichina. Ma si è anche creata una “zona grigia” di partecipazione attiva alle persecuzioni, prima dei diritti, poi delle vite degli ebrei.
Gli studi storici hanno ricostruito complessivamente gli episodi di partecipazione di cittadini alla cattura di ebrei, di copresenza nei luoghi di detenzione e di coinvolgimento attivo nell’opera di sterminio. Ma hanno spesso pudicamente taciuto le modalità più diffuse: quella dell’indifferenza (la conservazione del proprio “particulare”) e della delazione. E a tal riguardo Leopardi aveva già detto abbastanza sui “costumi degli italiani” e, più e prima ancora del poeta di Recanati, Guicciardini aveva intuito il loro tratto antropologico più vero.
La responsabilità dei riformisti
Dinanzi al ritorno del linguaggio e dell’immaginario collettivo del razzismo italico, su cui Salvini e i suoi fan stanno costruendo un ampio consenso sociale ma negato solo da chi rimane ancora fuorviato dal mito degli italiani “brava gente”, i riformisti che intendono contrastare il fenomeno devono aver chiaro contro cosa stanno combattendo. Al centro dello scontro c’è il nodo dell’italiano come carattere nazionale che è già emerso in altri periodi storici e non è stato mai sciolto. Non si tratta né di un ritorno degli spettri del passato, né di una mera ostilità sistematica e indiscriminata verso gli stranieri, ma di un ulteriore e più incisivo ammodernamento dell’italianità, mediante le opportunità offerte dalla potenza della profilazione digitale non negoziata con gli utenti (su cui ragiona con acume Michele Mezza nel volume “Algoritmi di libertà” edito da Donzelli nel 2018) e dal nuovo quadro geopolitico europeo e mondiale. I flussi migratori incontrollati, che si sono ingigantiti dagli inizi degli anni Novanta,e l’impossibilità per l’UE – inceppata nei suoi contraddittori e farraginosi meccanismi decisionali di stampo intergovernativo – di governarli non sono altro che il contesto entro cui avviene l’aggiornamento della scrittura identitaria del carattere nazionale, ancora una volta in una logica razzista tipicamente italiana.
Non è la destra fascista il nuovo protagonista, ma un’ampia zona grigia, un consistente segmento trasversale a tutte le stratificazioni sociali e a tutte le opzioni politiche – dall’estrema sinistra all’estrema destra – e che ha come caratteristica comune la costante autoassoluzione per i propri comportamenti e le proprie scelte irresponsabili. Viene ripetuto come una litania: “Non siamo razzisti ma siamo costretti ad agire così per colpa della casta che ci ha governato finora e dell’Europa che ci lascia soli per inseguire gli interessi dei finanzieri ebrei”. È un misto di rancore, pregiudizio, deresponsabilizzazione, cinismo e disincanto trasformatosi in simboli e vocaboli che richiamano l’esclusione e l’odio e danno corpo a una domanda pressante di ordine e sicurezza che bisogna saper ascoltare.
L’antico slogan “prima gli italiani” è stato ricostruito e ammodernato da decenni con una pluralità di tasselli che vanno da una malintesa ed esagerata tutela del “made in Italy” all’esaltazione del “chilometro zero”, dalla costruzione falsificata di un mitizzato “ritorno alla terra” da parte dei giovani alla narrazione nostalgica di un’inesistente agricoltura bucolica e naturale, dagli attacchi alla ricerca scientifica e alla cultura allo sbrodolamento di teorie nefaste come quella della “decrescita felice”, dall’aggiornamento delle logiche assistenzialistiche e stataliste alla demonizzazione degli accordi internazionali di libero scambio, dalla sostituzione della “questione meridionale” con la “questione settentrionale” all’identificazione del leghismo nordista con il neoborbonismo.
Con la crisi economica del 2008, l’antica parola d’ordine “prima gli italiani” è stata puntellata con un tassello imprevisto che si è venuto ad aggiungere al resto: la paura e la rabbia indotte dalla retrocessione sociale dei ceti medi impoveriti e lasciati a se stessi senza poter disporre di nuove opportunità per ricollocarsi.
Adesso, per poterla spuntare, i riformisti devono essere consapevoli che non si può contrastare e ribaltare una mutazione antropologica di tale portata, a cui per decenni non si è affatto prestato attenzione, senza elaborare un progetto comune di respiro europeo che metta al centro il governo delle migrazioni e una politica di collaborazione diretta coi Paesi di partenza – con corridoi umanitari e canali d’ingresso legali – per tener conto delle esigenze di ogni realtà economica e assumere l’Africa come partner strategico. Un progetto che abbia come premessa la proposta di una nuova governance dell’UE per fare in modo che le materie “politica migratoria” e “politica della sicurezza” siano competenze assunte pienamente dall’Unione, mediante il superamento del meccanismo decisionale intergovernativo e una diversa articolazione dei poteri tra Parlamento, Commissione e Consiglio, spostando sul Parlamento la rappresentanza dei popoli europei.
Adesso, per poterla spuntare, i riformisti devono inoltre adeguare il linguaggio degli slanci umanitari e degli interventi solidaristici anche delle Chiese. Per capirci faccio un esempio concreto. “Accogliamoli tutti” è il titolo di un pamphlet di Luigi Manconi e Valentina Brinis, edito nel 2013 da “Il Saggiatore”, in cui i due studiosi hanno inteso dimostrare, con dati scientifici accuratamente elaborati, come l’immigrazione costituisca un’opportunità per risolvere drammatici problemi demografici di una società invecchiata e immobile come la nostra. Si tratta di un approccio molto utile e concreto per regolare, con politiche appropriate, il problema migratorio sulla base delle convenienze economiche e sociali dei Paesi di partenza e di arrivo. In realtà,“Accogliamoli tutti” è diventato anche lo slogan di coloro, come padre Alex Zanotelli, che coltivano, in modo velleitario, l’utopia di flussi migratori liberi e senza controlli alle frontiere. Si tratta allora di lavorare sui vocaboli e sui simboli in una materia complessa per distinguere approcci del tutto opposti e che incidono enormemente nella formazione dell’opinione pubblica.
Ingaggiare una battaglia culturale
Adesso, per poterla spuntare, i riformisti devono prendere sul serio la domanda di ordine e sicurezza che i cittadini esprimono, assumendo un atteggiamento rigoroso e inflessibile “di lotta senza quartiere all’illegalità – per dirla con Marco Minniti (“Il Foglio” del 30 agosto 2018) – come condizione per costruire percorsi di legalità”. E nello stesso tempo devono ingaggiare una battaglia culturale per avviare una nuova rivoluzione antropologica e sciogliere finalmente il nodo dell’italiano come carattere nazionale.
Scioglierlo in che modo? Non già con la facile e generica critica all’Europa (quali Paesi? Quali Chiese locali?) che alcuni rappresentanti della Chiesa cattolica italiana irresponsabilmente sollevano, ma con un impegno e un approccio di chiara e netta impostazione europeista, sollecitando la Conferenza episcopale europea a promuovere i valori democratici di solidarietà, apertura e rispetto dei diritti umani, sanciti dal Trattato sull’UE, e a contrastare sia il cosmopolitismo velleitario alla Zanotelli, sia gli atteggiamenti egoistici e di chiusura mostrati dalle Chiese e dai governi dei Paesi del gruppo di Visegrad.
Scioglierlo in che modo? Non già con l’idea di “incivilire i barbari”, come ha proposto Giovanni Orsina sul “Foglio” (29 agosto 2018), ma ricostruendo, “con il secchiello e la paletta” – per usare una bella immagine di Adriano Sofri sempre sul “Foglio” (30 agosto 2018) – l’argine al razzismo che, alle ultime elezioni politiche, ha ceduto. Un argine che adesso pezzi più avveduti e sensibili di società devono consolidare con materiali più sicuri per poter diventare davvero società civile. A partire da veri e propri percorsi di autoapprendimento collettivo all’esercizio consapevole e responsabile della cittadinanza e dei diritti e doveri della democrazia rappresentativa nel nuovo contesto della profilazione digitale incontrollata, all’individuazione dell’effettivo interesse nazionale in rapporto all’interesse europeo, alla ridefinizione della sovranità nazionale in relazione alla nuova sovranità europea da progettare e dibattere in vista delle prossime elezioni europee.
Presidente del CeSLAM (Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani). Dopo una lunga esperienza di direzione nelle organizzazioni di rappresentanza dell’agricoltura, nel 2005 ha promosso l’associazione “Rete Fattorie Sociali” di cui è stato presidente fino al 2011. Docente del Master in Agricoltura Sociale presso l’Università di Roma Tor Vergata, si occupa di sviluppo locale e innovazione sociale. Collabora con istituzioni di ricerca socioeconomica e di formazione e con riviste specializzate. Ultima pubblicazione: CYBER PROPAGANDA. Ovvero la promozione nell’era dei social (Edizioni Olio Officina, 2019).