di Stefano Ceccanti
Il Sì dei riformisti: un pentalogo.
1. Sono decenni che si discute di riduzione dei parlamentari, per motivi niente affatto casuali che c’entrano ben poco con una mera riduzione dei costi.
Dal 1970 sono sorti i Consigli regionali e dal 1979 è eletto direttamente il Parlamento europeo, oltre alla crescita normativa complessiva dell’Unione europea. Non a caso la prima riflessione più organica che dava per scontata la riduzione, sia pure con ipotesi numeriche diverse, fu pacificamente affrontata nel primi anni ’80 nella Commissione Bozzi.
Anche solo per limitarci alle Assemblee elettive, e senza considerare lo spazio normativo assunto dalle Autorità Garanti, le ragioni sono quindi di per sé evidenti, rispetto al numero fissato nel 1963 di ben 945 parlamentari che fanno esattamente lo stesso lavoro, che sono un’anomalia quantitativa evidente rispetto alle democrazie di uguale dimensione di scala.
2. Giustamente le principali proposte di riforme hanno sin qui sempre collegato la rimozione di entrambe le anomalie: il superamento del bicameralismo ripetitivo e il numero eccessivo di parlamentari, tuttavia la bocciatura del referendum costituzionale del 2016 è avvenuta anche, nostro malgrado, sulla base di argomentazioni dottrinali e politiche a favore della preferibilità di riforme chirurgiche, puntuali, che allora hanno prevalso e con cui quindi occorre fare i conti.
Posta questa premessa, è evidente che dove sta il più sta anche il meno. Se si è favorevoli alla riduzione dei parlamentari in combinato disposto con il superamento del bicameralismo ripetitivo, non si vede perché si debba essere contrari alla prima se proposta da sola. E’ un classico ragionamento massimalista che i riformisti, se sono tali, dovrebbero aborrire.
3. Se un difetto c’è, è legato alla natura appunto limitata dell’intervento costituzionale: ma se si fa questa analisi, è poi del tutto precluso l’argomento dell’emergenza democratica, del pericolo democratico, dei gravissimi squilibri. E la riforma è troppo piccola non può produrre enormi sconquassi. Porta con sé problemi e per questo le riforme dovrebbero essere sistemiche, come sostenuto nel 2016 con esiti elettorali negativi, ma si tolgano del tutto dal tavolo gli argomenti allarmisti che erano infondati nel 2016 ma che, logicamente, lo sono ancora meno per una riforma chirurgica. Anche questi argomenti da ultima spiaggia della democrazia sono stati giustamente sempre rifiutati dai riformisti per i quali esistono anche e soprattutto i danni dello status quo delle istituzioni, del conservatorismo costituzionale, che scambia la difesa dei principi permanenti con quella di mezzi datati.
4. Se la riduzione dei parlamentari è giusta, non ha neanche senso opporsi in nome di riforme ulteriori che dovrebbero essere fatte dopo, sia che si tratti di riforme dei Regolamenti parlamentari (qualsiasi riforma costituzionale che interviene sul Parlamento andrebbe poi prontamente seguita da riforme regolamentari, ma questo non è argomento preclusivo) sia elettorali. Se si ritiene che queste ultime impattino troppo sul sistema delle garanzie costituzionali si possono proporre modifiche dei quorum di garanzia, a cominciare da quelli sulla revisione costituzionale, ma ovviamente il giudizio sulla riduzione non può basarsi su leggi elettorali futuribili.
Ovviamente il cambiamento del numero, proprio per la sua natura parziale ed imperfetta, porta con sé logicamente altre riforme, alcune delle quali già oggetto del patto di maggioranza e da affrontare in Parlamento prima possibile: finché si conferma un doppio rapporto fiduciario vanno assolutamente parificati gli elettorati attivo e passivo per rendere pressoché impossibili maggioranze diverse e va superata la base regionale del Senato per avvicinare anche in tal modo i sistemi elettorali (seguendo la linea già adottata per la Legge Rosato su autorevole indicazione degli organi di garanzia) e va ridotta la quota dei delegati regionali nel collegio del Presidente della Repubblica, riportando alle dimensioni tradizionali l’equilibro coi parlamentari.
L’indicazione generica di un sistema proporzionale, di per sé compatibile con vari sistemi concreti, con sbarramenti bassi, alti o anche con significativi premi di maggioranza (la prima proposta del Pd nella trattativa prevedeva il premio), era più legata alla difficoltà di utilizzare per un rapporto di vicinanza tra eletti ed elettori, lo strumento del collegio uninominale maggioritario, una volta ridotto il numero e per conseguenza allontanato quello tra elettori ed eletti. Anche su questo il confronto va ripreso prima possibile, senza indugi. Si tratta comunque di argomenti che non possono incidere direttamente sulla scelta di voto.
5. In ultimo, ma non per ultimo in ordine di importanza. Si sottolinea come possibile incoerenza il fatto che il Pd abbia votato No in Parlamento nei primi tre passaggi e solo Sì nell’ultimo, per consentire la nascita del Governo. Non si approfondisce però la ragione di fondo per cui vi fu il No nei primi passaggi, che fu soprattutto, come risulta dagli atti parlamentari, una reazione al comportamento dell’allora maggioranza, avallato dalle Presidenze delle Camere, di dichiarare inammissibili gli emendamenti che collegavano riduzione dei parlamentari e riforma del bicameralismo.
Su quel legame, con quella grave forzatura, non si poté neanche votare. Lì stava la radice del No. Anche quella era una scelta politica di legittima difesa più che tecnica e di merito. A questo argomento sbagliato si lega poi una più generale scorciatoia politica: il tasso di riformismo dovrebbe dipendere secondo alcuni, scelta per scelta, dal tasso di lontananza dal M5s.
Una visione che nasconde una forma di subalternità politico-culturale, analoga, anche se opposta a quella di chi pensa che non si debbano mai sollevare problemi per non mettere in pericolo la maggioranza e il Governo. Nel caso di specie il M5S è arrivato buon ultimo, dopo decenni, a battersi per la riduzione del numero. Non è un motivo sufficiente perché coloro che la sostenevano da prima se ne debbano ritrarre preoccupati.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.