LibertàEguale

Renzi, il leader più capace. Il Pd, il seme da cui ripartire

di Carlo Cerami

 

Il risentimento e l’astio verso Matteo Renzi, già segretario del partito democratico e presidente del consiglio, sta riaffiorando sotto forma di sollievo di molti compagni per la sua scelta di separare le sue sorti da quelle del PD. Forse questa è la vera ragione del suo gesto.

 

Un “clima infame” contro il leader più capace

Questo “clima infame”, come avrebbe detto Bettino Craxi, perdura da anni e scaturisce da un conflitto che attiene non tanto alle scelte politiche, ma a quelle identitarie e di stile di leadership, che certamente hanno caratterizzato la sua non breve stagione alla guida del partito democratico.

Considero Renzi non una risorsa, ma il leader di gran lunga più capace (come lo fu in epoca più risalente Massimo D’Alema) che si sia misurato con la fase politica avviata con la crisi del 2008, avendo interpretato da subito la domanda di rottura di una stagione ormai definitivamente alle spalle, quella dell’Ulivo e di Berlusconi, impropriamente chiamata seconda repubblica. In quegli anni, ha tenuto la barra dritta su valori fondanti ed imprimendo una accelerazione alla crescita di una cultura liberal democratica e progressista nel nostro paese. Le critiche revanchiste sono semplicemente e testardamente conservatrici. Sono le stesse di chi ambisce a rifare del PD un partito di sinistra tradizionale anziché quell’incrocio di culture e identità progressiste che mai come ora si trovano unite nel paese per sbarrare la strada al populismo sovranista e reazionario.

 

Servono partiti solidi, grandi, democratici, partecipati

E tuttavia, di fronte alla scelta di oggi, avverto disagio e dissenso.
Indico principalmente due motivi.

Il primo, riguarda le forme dell’agire politico.

Nell’era della crisi della democrazia parlamentare e nel contestuale inclinarsi verso forme populistico demagogiche di fasce larghe di cittadini delusi e frustrati dai cambiamenti in atto, la risposta deve essere quella di far nascere partiti solidi, grandi, democratici e partecipati, che ridiano senso all’impegno militante, formino classi dirigenti, si candidino alla guida del paese, incarnino insomma una speranza di cambiamento. Perché ancora i partiti? Perché sono indispensabili a costruire sintesi nella drammatica complessità del nostro tempo, a rappresentare mondi articolati e dispersi, a contenere differenze e ad elaborare proposte. È oggi così il partito democratico? No, non è così, attardato com’è in una radicata sclerotizzazione rispetto all’incombere del cambiamento. Ma davvero possiamo non dirci che il Pd è stato e rimane la spina dorsale della cultura liberale e socialista, di tradizione cristiana e non, garante dell’identità europea e custode dei valori costituzionali, in ogni sua componente? In ogni sua componente, giova ripeterlo?

Il partito democratico è insufficiente, ma va superato verso il mercato politico europeo, non nella sfida interna. Se la sfida è con Orban e Salvini e Le Pen, quello che dobbiamo dare ai ragazzi è un salto verso quella dimensione. Dubito che giovi a tale scopo dividere i destini nel campo nazionale.

 

Il Partito Democratico resta il seme da cui ripartire

Il secondo riguarda le ricette politiche che possono aiutarci a far fronte al futuro.
Abbiamo conosciuto la crisi socialdemocratica e anche quella liberal-democratica. C’è una formidabile domanda di valori nuovi, e si rivelano tutti figli del mondo globalizzato. Le diseguaglianze, il lavoro, il ruolo protagonista dello stato, la cooperazione contro l’estremismo competitivo, l’economia sociale di mercato contro l’ideologia del valore degli azionisti, la protezione della qualità ambientale. Non mi riesce di pensare a questa nuova dimensione della politica se non incardinata su partiti nuovi e su questo non fatico a capire alcune critiche al partito democratico. Come si direbbe, da destra e da sinistra.

Vedo senza dubbio un tema di inadeguatezza di ciò che siamo diventati, ma rimango convinto che li, in quei valori fondanti, in quell’incrocio di culture, in quel divenire della storia italiana partendo dalle sue radici, sia presente il seme da cui ripartire. Non è insomma una questione di radicali e moderati, di sinistra e centro, ma di ricette adeguate ai grandi problemi del nostro tempo, che non sono riconducibili oggi nè a un apparato ideale nè a un leader in carne ed ossa.

Per me, oggi, è comunque un giorno triste. Dovunque andassi, sentirei di avere perso un pezzo. Non c’e mai stato bisogno come oggi di allargare lo sguardo oltre i confini nazionali definendo là una nuova identità che ci avvicini agli ideali immodificabili, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà. Per farlo serve essere grandi e robusti.

Auguro comunque successo ai miei compagni di tante battaglie.

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