LibertàEguale

Riforme istituzionali, ancora troppo vaghi i programmi dei partiti

di Vittorio Ferla 

 

Dopo la chiusura delle liste, la campagna elettorale si concentra adesso sul confronto tra i programmi. A dispetto del lamento ricorrente sul pessimo rendimento della democrazia italiana, la questione delle riforme istituzionali sembra completamente sparita dall’agenda. I motivi sono sostanzialmente due.

In primo luogo, la sconfitta del referendum costituzionale del 2016 ha chiuso, di fatto, con un insuccesso, la stagione del dibattito sulle riforme. Il progetto Boschi promosso dal governo Renzi aveva in sostanza riassunto decenni di dibattiti e di proposte, raccogliendo anche le conclusioni della commissione per le riforme che lavorò sotto il governo Letta su impulso del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma la campagna referendaria si trasformò in una sorta di plebiscito pro o contro Renzi. E il progetto venne respinto. Fu la vittoria dei conservatori cronici della Costituzione più bella del mondo. Che magari sarà tanto bella, ma dimostra di funzionare maluccio. Per i riformisti di generazioni diverse, impegnati dalla fine degli anni 70 ad oggi per tentare di correggere i limiti della Costituzione vigente, la sconfitta fu traumatica. Sono passati sei anni da allora e nessuno ha più avuto la forza di riprendere in mano la questione.

In secondo luogo, l’affermazione nell’ultimo decennio del populismo grillino, ispirato dal Vaffa contro la ‘casta’, ha sostanzialmente rafforzato un principio di conservatorismo istituzionale, nel nome di una battaglia moralistica e qualunquista nei confronti del ceto politico. Questo approccio ha progressivamente eliminato dall’agenda pubblica il senso di una riforma ragionata delle parti più claudicanti del nostro sistema costituzionale e ha sviluppato una serie di proposte concepite per colpire i politici ‘cattivi’. Il divieto di rielezione dopo due legislature, il vincolo di mandato, il ritorno della legge elettorale proporzionale, il taglio dei parlamentari: sono tutte misure ispirate dall’obiettivo di punire la ‘casta’. Con la conseguenza di indebolire la rappresentanza politica, di moltiplicare i poteri delle segreterie di partito e di aumentare la divaricazione tra cittadini e istituzioni.

In sostanza, l’aria che tira ormai da diversi anni a questa parte ha imposto ai partiti un approccio assai circospetto alla materia. E così le proposte di riforme istituzionali che si leggono nei programmi di coalizioni e partiti appaiono assai timidi o troppo vaghi. Con la scusa che le priorità sono altre, nessuno si sogna di attribuire alla legislatura che verrà un ruolo ri-costituente. Eppure ce ne sarebbe un gran bisogno, specie dopo una riforma traumatica come il taglio dei parlamentari: lo sanno tutti coloro che quotidianamente assistono al pessimo rendimento delle istituzioni repubblicane.

L’unico partito che sembra fare della riforma istituzionale un tema di campagna elettorale sembra essere finora Fratelli d’Italia. Che, nel programma, lancia l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Peccato che la proposta non si sforzi di definire il dettaglio: non si spiega, per esempio, se questa modifica comporta anche un rafforzamento dei poteri del presidente, quali rapporti dovrebbe poi avere questi con l’esecutivo, se sono previsti meccanismi politico-istituzionali finalizzati a mantenere l’equilibrio tra i vari poteri e, in particolare, garantire il controllo dell’azione del presidente eletto. Allo stesso modo, non si capisce quale tipo di presidenzialismo abbia in mente Giorgia Meloni che proprio ieri, al Meeting di Rimini, ha espresso una simpatia per il sistema semipresidenziale francese.

Nel frattempo, il dibattito di questi giorni è già scivolato nel più stantio schematismo ideologico. Meloni, agitando la bandiera del presidenzialismo così vagamente, sembra ammiccare a quella parte dei suoi che può leggervi una promessa di ‘governo forte’ se non di ‘dittatura elettiva’. Specularmente, il Pd ha già sollevato la solita muraglia ideologica e conservativa. Non bisogna ignorare infatti che, come ricorda il costituzionalista Marco Olivetti, perfino nei sistemi presidenziali a democrazia consolidata – non solo gli Usa, ma anche la gran parte dei paesi dell’America latina – il presidente eletto dal popolo (nonché capo del governo) gode di una stabilità ignota agli esecutivi italiani ma è sottoposto contestualmente a una serie di contropoteri. Per esempio, un parlamento molto forte – a volte di segno opposto – che può limitare parecchio l’applicazione del programma del presidente. Sempre ieri a Rimini, Meloni ha ricordato e riaffermato il suo impegno per il ritorno delle preferenze nella legge elettorale. Il che significa, di conseguenza, il ritorno di un sistema squisitamente proporzionale. Una proposta che lascia interdetti: qualsiasi costituzionalista serio sottolineerebbe che il mix tra elezione diretta del capo dello stato e una legge elettorale proporzionale sarebbe un pasticcio assoluto perché associa ad un vertice forte un parlamento frammentato e instabile. Insomma, c’è grande confusione sotto il cielo costituzionale della destra e non è detto che questa campagna elettorale sarà sufficiente per diradare le nubi.

A proposito di presidenzialismo, suggestiva appare la proposta del ‘sindaco di’Italia lanciata dal Terzo Polo: in pratica, si tratta di riproporre a livello nazionale il meccanismo di elezione dei sindaci con l’indicazione diretta e popolare del capo dell’esecutivo. Ancora una volta il programma non entra nei dettagli: sarebbe necessaria chiarezza per capire la dinamica che si verrebbe a creare tra Palazzo Chigi e Qurinale. Un busillis non da poco.

Abbastanza deludenti, poi, ma con diversi punti in comune, sono i programmi istituzionali del M5s e del Pd. Entrambi propongono la “sfiducia costruttiva”, una misura che mira a rafforzare la stabilità dei governi: in sostanza, il governo non può essere sfiduciato se contestualmente il parlamento non vota la fiducia a un nuovo governo. I due partiti propongono inoltre misure volte a impedire i cambi di casacca dei parlamentari nel corso della legislatura e ad aumentare i meccanismi di democrazia interna e trasparenza nei partiti. I grillini, ovviamente, ci mettono in più il solito carico di moralismo anticasta.

Sorprende abbastanza il diffuso silenzio sul bicameralismo perfetto (cioè due camere ‘doppioni’ con eguali poteri), specie dopo due riforme importanti come la riduzione dei parlamentari e l’estensione del voto ai diciottenni anche al senato. Solo il Terzo Polo propone esplicitamente il superamento del bicameralismo paritario, senza però addentrarsi troppo. Come ha spiegato più volte Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato dem, almeno due interventi si rendono necessari. Primo: valorizzare il Parlamento in seduta comune. Questa, con l’insieme dei suoi 600 componenti, dovrà diventare la sede unitaria di definizione dell’indirizzo politico nazionale. Secondo: differenziare le prerogative delle due camere. Collegando il senato ai consigli regionali. E liberando la camera dei deputati dalle navette del bicameralismo perfetto. Di fronte a questi interventi minimi, indispensabili e urgenti, il conservatorismo costituzionale dei partiti sarebbe l’approccio più sbagliato e aumenterebbe la debolezza del parlamento.

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